Arbitrage Pricing Theory (APT)
- Information
- Investimenti 34 hits
- Prima pubblicazione: 26 Agosto 2025
«The market portfolio plays no special role».
Stephen Ross
Questo articolo fa parte del Percorso intermedio, pensato per chi possiede già le basi e vuole approfondire strategie di investimento e concetti teorici per una comprensione più approfondita della finanza. In fondo alla pagina, troverai il link al prossimo articolo del percorso.
I postulati del Capital Asset Pricing Model (CAPM), in particolare le sue assunzioni restrittive sul comportamento degli investitori, sono stati messi in discussione da numerose evidenze empiriche emerse negli anni successivi alla sua formulazione.
Tra le idee alternative sviluppate nel tempo, l’Arbitrage Pricing Theory (APT), proposta da Stephen Ross nel 1976, è probabilmente quella che ha raccolto il consenso più ampio tra gli economisti.
A differenza del CAPM, che si basa su come gli investitori dovrebbero comportarsi per costruire portafogli ottimali, l'APT parte da un presupposto più elementare sul funzionamento dei mercati: la legge del prezzo unico.
Questo principio, fondamentale in finanza, afferma che due attività con le stesse caratteristiche di rischio non possono avere rendimenti attesi diversi: se ciò accadesse, si creerebbe un'opportunità di arbitraggio, ovvero la possibilità di ottenere un profitto certo senza investire capitale e senza assumersi alcun rischio.
L’idea chiave è che in un mercato sufficientemente ampio, la presenza di molte attività simili permette di costruire portafogli ben diversificati che eliminano i rischi specifici.
Se un’attività fosse mal prezzata rispetto ai fattori di rischio sistematico che influenzano i mercati, sarebbe possibile realizzare un portafoglio privo di rischio sistematico e con investimento nullo, ottenendo così un profitto certo.
L'APT, quindi, non impone un modello di comportamento agli investitori, ma assume che i rendimenti dei titoli siano guidati da una serie di fattori di rischio comuni.
Di conseguenza, l’APT è un modello che esprime il rendimento di un titolo o di un portafoglio di titoli in funzione di una serie di fattori macroeconomici o stilistici, tra i quali possiamo trovare l’inflazione, il PIL, la pendenza della curva dei tassi di interesse, il prezzo del petrolio e così via.
Questi fattori sono assunti come esogeni rispetto ai prezzi di mercato: la teoria non specifica quali debbano essere, ma implica che il prezzo di ogni asset dipenda linearmente dalla sua esposizione (beta) a tali fattori.
Ogni fattore può essere rappresentato da un portafoglio e la formulazione del modello multifattoriale del rischio è la seguente:
\begin{equation} E[R_i]=R_f + β_i^{F1}(R_{F1} - R_f) + β_i^{F2}(R_{F2} - R_f) + ... + β_i^{Fn}(R_{Fn} - R_f) \end{equation}
Dove i vari βiF1, ..., βiFn sono i beta dei fattori, uno per ogni fattore di rischio, e possono essere interpretati come misure di sensibilità, analogamente al beta nel CAPM.
Ogni beta è la percentuale di cambiamento atteso nel rendimento in eccesso di un titolo per una unità percentuale di cambiamento nel rendimento in eccesso atteso del portafoglio fattore.
In parole più semplici, il beta di un fattore misura quanto il rendimento di un titolo è influenzato da una specifica fonte di rischio sistematico.
Un vantaggio importante dell’APT rispetto al CAPM è che non richiede che il portafoglio di mercato sia efficiente: la relazione tra rendimento atteso e rischio sistematico deriva da una condizione di non arbitraggio, e non da una condizione di equilibrio generale del mercato.
Per comprendere il meccanismo di arbitraggio che sta alla base del modello, consideriamo un esempio con due soli fattori di rischio (ad esempio, la crescita economica e i tassi di interesse).
Supponiamo di osservare tre portafogli diversificati (A, B e C) con i seguenti rendimenti attesi e beta rispetto ai due fattori:
Portafoglio | Rendimento Atteso (E[R]) | Beta Fattore 1 (β₁) | Beta Fattore 2 (β₂) |
---|---|---|---|
A | 15% | 1 | 0,6 |
B | 14% | 0,5 | 1 |
C | 10% | 0,3 | 0,2 |
Questi tre portafogli definiscono un "piano di equilibrio" dei rendimenti: qualsiasi portafoglio che sia una combinazione di A, B e C giacerà su questo piano.
Immaginiamo ora di scoprire un quarto portafoglio, D, con un rendimento atteso del 15%, un β1 di 0,6 e un β2 di 0,6.
È prezzato correttamente?
Per scoprirlo, possiamo costruire un portafoglio clone (chiamiamolo P) utilizzando A, B e C, che abbia esattamente gli stessi beta di D. Investendo un terzo del nostro capitale in A, un terzo in B e un terzo in C, otteniamo un portafoglio P con i seguenti beta:
- βP1 = (1/3) × 1 + (1/3) × 0,5 + (1/3) × 0,3 = 0,6.
- βP2 = (1/3) × 0,6 + (1/3) × 1 + (1/3) × 0,2 = 0,6.
Il portafoglio P ha lo stesso profilo di rischio di D. Il suo rendimento atteso sarà:
E[RP] = (1/3) × 15% + (1/3) × 14% + (1/3) × 10% = 13%.
Si verifica un'opportunità di arbitraggio: il portafoglio D offre un rendimento del 15% per lo stesso rischio per cui il portafoglio P offre il 13%.
Il portafoglio D è quindi sottovalutato. Un arbitraggista potrebbe:
- Vendere allo scoperto 100 euro del portafoglio P.
- Acquistare 100 euro del portafoglio D.
Questa operazione non richiede alcun investimento netto. Il rischio sistematico è nullo, perché i beta dei due portafogli si annullano a vicenda.
Il profitto, però, è certo e privo di rischio: 15% − 13% = 2%, ovvero 2 euro.
Gli arbitraggisti continueranno a eseguire questa operazione fino a quando il prezzo del portafoglio D non salirà (e il suo rendimento atteso scenderà), riportandolo sul piano di equilibrio definito da A, B e C.
Il punto centrale è che il portafoglio D, pur avendo lo stesso profilo di rischio sistematico del portafoglio P, garantisce un rendimento superiore.
Questo significa che il suo prezzo di mercato risulta troppo basso rispetto a quanto previsto dall’equilibrio multifattoriale, segnalando una condizione di sottovalutazione.
Ogni portafoglio fattore può essere pensato come un portafoglio autofinanziato: in un mondo senza costi di transazione e costi del capitale, ci si potrà porre in una posizione lunga su alcuni titoli che beneficiano di un certo fattore e corta su altri che ne sono penalizzati, per un pari valore di mercato.
In altre parole, in un modello fattoriale non si ricerca più un solo portafoglio efficiente, corrispondente – nel CAPM – a quello di mercato; l'equilibrio sarà costruito invece su un insieme di portafogli fattore ben diversificati.
La flessibilità dell’APT consente di adattare il modello a diversi contesti applicativi, anche quando i fattori sistematici non sono esplicitamente osservabili, ma possono essere stimati da serie storiche o costruiti statisticamente.
Questo rende l’APT una base concettuale importante per molte strategie di investimento moderne.
In particolare, ha ispirato lo sviluppo del cosiddetto Factor Investing, o investimento fattoriale, oggi alla base di numerose strategie quantitative adottate da gestori istituzionali.
In questo approccio, gli investitori costruiscono portafogli orientati verso fattori che, secondo l’evidenza empirica, offrirebbero premi al rischio persistenti.
Per la selezione dei fattori sono stati condotti numerosi studi. L’approccio che ha riscosso maggiore consenso è stato inizialmente proposto da Fama e French e, in seguito, ampliato da M. Carhart.
Questi autori hanno mostrato che esistono gruppi di titoli caratterizzati da rendimenti mediamente superiori a quelli giustificabili dal solo CAPM, ossia da un alfa positivo persistente. In base al CAPM, questo fenomeno non potrebbe verificarsi se non sporadicamente.
Tra questi gruppi di titoli sono state fatte rientrare le azioni a bassa capitalizzazione (small cap), spesso associate a un maggior potenziale di crescita ma anche a una minore liquidità e informazione; le azioni con un alto rapporto tra il valore del capitale proprio aziendale e il loro valore di mercato (book-to-market ratio), tipicamente considerate "value stocks" che il mercato potrebbe sottovalutare; e le azioni in linea con una strategia di momentum (si acquistano le azioni con i rendimenti migliori nell’ultimo anno e si vendono quelle con i rendimenti peggiori), un fenomeno spesso legato a reazioni lente o eccessive degli investitori alle notizie.
A questi gruppi è stato poi aggiunto il portafoglio di mercato come aggregato a sé stante.
Questo specifico modello è stato definito modello multifattore di Fama-French-Carhart:
\begin{equation} E[R_i]=R_f + β_i^{Mkt}(R_{Mkt} - R_f) + β_i^{SMB}(R_{SMB} - R_f) + β_i^{HML}(R_{HML} - R_f) + β_i^{PR1YR}(R_{PR1YR} - R_f) \end{equation}
Dove:
Mkt: Portafoglio di mercato.
SMB (Small-Minus-Big): portafoglio di azioni a bassa capitalizzazione.
HML (High-Minus-Low): portafoglio con un alto book-to-market ratio.
PR1YR (Prior 1 Year momentum): portafoglio con alti rendimenti nell’ultimo anno.
L’APT, così come il CAPM, è anche utilizzata da alcune aziende per calcolare il costo del capitale, che è una delle variabili chiave per testare la bontà di un progetto di investimento.
Un analista stimerà la sensibilità (beta) del progetto a ciascuno dei fattori rilevanti e utilizzerà i premi per il rischio di mercato associati a tali fattori per determinare il rendimento richiesto.
Ma soprattutto, in un’ottica di asset allocation, questa teoria è impiegata da numerosi gestori di fondi comuni di investimento o Sicav a gestione attiva.
Un gestore, ad esempio, può decidere di inclinare il proprio portafoglio verso un particolare fattore (ad esempio, il Value) se ritiene che questo possa sovraperformare, oppure può cercare di neutralizzare l'esposizione a un fattore considerato rischioso (come la sensibilità ai tassi di interesse).
Nonostante la sua eleganza teorica e la maggiore flessibilità rispetto al CAPM, l’APT non è esente da critiche, sia sotto il profilo teorico che empirico:
- Indeterminatezza dei fattori. La teoria non specifica quali siano i fattori rilevanti: la loro selezione è lasciata all’analisi empirica, il che riduce il potere predittivo ex ante del modello e aumenta il rischio di data mining.
- Assenza di microfondazioni comportamentali. Il modello non deriva da ipotesi sui comportamenti degli investitori, ma solo da condizioni di non arbitraggio. Questo è un vantaggio in termini di generalità, ma rende il modello più fragile dal punto di vista dell’interpretazione economica.
- Stabilità nel tempo dei fattori. Studi empirici hanno mostrato che i premi per i fattori non sono necessariamente stabili nel tempo, il che può ridurre l'affidabilità del modello per la valutazione di lungo periodo o in contesti di cambiamento strutturale del mercato.
Possiamo quindi concludere osservando che, se da un lato l’APT rappresenta un raffinato strumento di analisi dei rendimenti e del rischio sistematico, dall’altro la sua applicazione richiede cautela e una solida base empirica.
Nel dibattito contemporaneo, il Factor Investing si è affermato come il paradigma dominante nell’analisi del rischio sistematico, soprattutto grazie ai contributi di Fama, French e Carhart discussi in precedenza.
Spesso ci si dimentica, però, che alla base di questo approccio c’è l’intuizione teorica dell’Arbitrage Pricing Theory di Stephen Ross, che già verso la metà degli anni Settanta aveva posto le premesse per una rappresentazione più flessibile e articolata del rischio, superando l’idea di un unico fattore di mercato.
L’APT ha permesso di pensare i rendimenti attesi come funzione di molteplici fonti di rischio, aprendo così la strada alla costruzione empirica dei fattori e alla loro applicazione pratica.
Ciononostante, è importante ricordare che anche questi modelli più evoluti presentano limiti teorici ed empirici non trascurabili, alcuni dei quali sono stati evidenziati in precedenza, che rendono il CAPM ancora oggi un punto di riferimento solido, pur nella sua semplicità, all’interno della teoria finanziaria.
In questo senso, riteniamo che l’avvento dell’APT e del Factor Investing non segni la fine del CAPM, ma piuttosto un’estensione che ne mette in evidenza sia i limiti che i punti di forza.
Il Percorso intermedio continua con l'articolo PAC Value Averaging: investire senza temere una crisi finanziaria.