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Lo stato stazionario e il commercio estero

Lo stato stazionario e il commercio estero


13Apr2024

Information
Andrea Gonzali Storia del pensiero economico 283 hits
Prima pubblicazione: 18 Febbraio 2024

«Se è peccato vendere il corpo per denaro, è un peccato ancora più grave vendere la mente per denaro, giacché la mente, lo dicono tutti, è più nobile del corpo».

Virginia Woolf

Indice

  1. Il cammino verso lo stato stazionario
  2. Il commercio estero

1. Il cammino verso lo stato stazionario

Vasily Surikov, Florence. Walk. (1884)

«The world is changing. We're not really proceeding on a stationary basis».

Kenneth Arrow

Secondo gli economisti classici, il progresso economico si dirige verso una destinazione inevitabile: lo “stato stazionario”.

Esiste una convinzione diffusa, condivisa da molti studiosi, che reputa Adam Smith come un ottimista e David Ricardo come un pessimista.

Tuttavia, analizzando attentamente i loro scritti, emerge come Smith non fosse necessariamente più ottimista di Ricardo riguardo alle potenzialità della crescita economica. Analogamente, Ricardo non vedeva lo stato stazionario come necessariamente negativo.

Per gli economisti classici, il profitto fungeva sia da fonte di finanziamento che da incentivo all’accumulazione di capitale ed era considerato il motore principale della crescita economica. Nonostante questo, i classici prevedevano che il tasso naturale di profitto sarebbe diminuito nel tempo.

Smith attribuisce questa tendenza all’interazione tra domanda e offerta di capitale impiegato nella produzione. Inizialmente, quando il capitale è scarso, la sua remunerazione è elevata, ma questa tende a ridursi man mano che il capitale diventa più abbondante.

Ricardo, invece, sosteneva che solo un aumento dei salari può influenzare i profitti. Con l’accumulazione del capitale, segue un incremento demografico, che porta a una maggiore domanda di cibo e all’espansione dell’utilizzo dei terreni agricoli.

Di conseguenza, si iniziano a coltivare terreni meno fertili o situati in posizioni meno favorevoli, aumentando i costi di produzione e di trasporto dei beni di prima necessità dalle zone “marginali”.

Questo meccanismo porta a un aumento del prezzo naturale dei beni di prima necessità, che impatta direttamente sui salari naturali.

L’aumento dei salari riduce la quota di valore che può essere destinata alla remunerazione del capitale, provocando una tendenza alla riduzione del tasso medio di profitto.

Allo stesso tempo, l’espansione verso terreni meno fertili accresce il divario di costo tra queste nuove aree e quelle già coltivate, aumentando così le rendite fondiarie.

Man mano che il tasso di profitto diminuisce e gli aumenti salariali compensano solo l’incremento dei costi di sussistenza, i proprietari terrieri emergono come i principali beneficiari del processo di accumulazione del capitale.

Di conseguenza, sorge un conflitto tra gli interessi dei capitalisti e quelli dei proprietari terrieri, poiché è proprio l’aumento dei costi di sussistenza a ridurre i profitti e ad aumentare le rendite.

La riduzione del tasso di profitto, frutto dell’accumulazione di capitale, può portare – superata una certa soglia – alla fine di questo processo e all’ingresso dell’economia nello “stato stazionario”.

La fine dell’accumulazione di capitale segna non soltanto la fine della crescita economica ma anche di quella demografica, dato che nel lungo termine l’andamento demografico tende a essere dettato dalle fluttuazioni del capitale investito.

Lo stato stazionario, secondo gli economisti classici, rappresenta il punto dove la società non cresce più, un equilibrio ecologico stabile in cui le variabili economiche e sociali si mantengono costanti nel tempo.

Il problema dei rendimenti decrescenti in agricoltura potrebbe però essere mitigato dal progresso tecnologico.

Nell’era moderna, la “teoria sulla crescita della popolazione” di Malthus, sebbene corretta per l’epoca pre-industriale, non ha mantenuto la sua validità dopo la rivoluzione industriale.

Nel XIX secolo, i paesi europei hanno attraversato una rivoluzione demografica caratterizzata da una significativa riduzione sia della mortalità che della natalità.

Questa evoluzione ha separato la crescita demografica da quella economica, permettendo un aumento sostenuto dei salari reali e una domanda molto più elevata di beni manufatti rispetto ai prodotti agricoli.

2. Il commercio estero

Andreas Gursky, Chicago Board of Trade II (1999)

«Io voglio che l'intera Europa abbia una sola moneta, renderà il commercio molto più facile».

Napoleone Bonaparte

Adam Smith riteneva che il commercio internazionale rappresentasse un’opportunità vitale per le nazioni sviluppate che disponevano di una vasta accumulazione di capitale, offrendo accesso a nuovi mercati con opportunità di profitto finora inesplorate.

L’importanza del commercio estero come mezzo per l’espansione dell’attività economica interna è stata condivisa anche da pensatori critici della legge di Say, come Malthus e Sismondi.

David Ricardo sottolineava l’importanza di ridurre i costi dei beni di prima necessità (e, di conseguenza, i salari) per rallentare la diminuzione del tasso di profitto. Questo obiettivo poteva essere perseguito mediante l’innovazione tecnologica o l’importazione di beni da paesi con costi di sussistenza inferiori.

Era però essenziale che i vantaggi di tali strategie non fossero annullati da costi di trasporto eccessivi o da elevati dazi doganali. Un esempio emblematico era rappresentato dall’Inghilterra del primo Ottocento e dalle “corn laws”, che proteggevano i produttori locali di grano dalla concorrenza estera.

Con l’abolizione delle corn laws nel 1846, la Gran Bretagna abbracciò il libero scambio, ottenendo risultati in linea con le previsioni di Ricardo in termini di prezzi, produzione e importazioni di cereali.

L’abolizione delle corn laws e l’adozione del libero scambio portarono a un aumento della dipendenza dell’economia britannica dalle importazioni agricole e a un’accelerazione della sua specializzazione nel settore industriale, dove la Gran Bretagna godette di un dominio pressoché assoluto fino al 1880.

Gli economisti classici consideravano il commercio internazionale un “gioco a somma positiva”, dal quale tutti i paesi coinvolti potevano trarre vantaggio. Questa prospettiva si basava sulla teoria della “mano invisibile” di Smith, secondo la quale il commercio tra le nazioni, se non ostacolato, avrebbe portato naturalmente a una divisione del lavoro più efficiente a livello internazionale.

Motivate dalla concorrenza, le nazioni tendevano a specializzarsi nei settori in cui avevano certi vantaggi rispetto agli altri, generando efficienze che si traducevano in un surplus di produzione di cui beneficiavano tutti i paesi coinvolti.

Smith introdusse il concetto di “vantaggio assoluto”, successivamente ampliato da Ricardo con quello di “vantaggio relativo”, che suggeriva che un paese avrebbe dovuto concentrarsi sulla produzione di beni per i quali deteneva un vantaggio relativo, importando gli altri.

Un esempio classico di questa teoria è lo scambio di vino e stoffa tra due paesi, che risulta vantaggioso per entrambi se il prezzo internazionale di questi beni rientra in un intervallo determinato dai loro costi di produzione relativi.

Ricardo introdusse l’idea di un meccanismo automatico di riequilibrio per la bilancia commerciale, suggerendo che gli squilibri nel commercio estero non dovrebbero suscitare preoccupazioni eccessive.

Purtroppo, questa teoria del commercio internazionale lasciava alcune questioni irrisolte: in particolare, su come i prezzi relativi si determinassero negli scambi internazionali.

Fu John Stuart Mill a completare la teoria, spiegando che il prezzo relativo a cui avviene normalmente il commercio tra due paesi è determinato dal punto di equilibrio tra offerta e domanda in entrambi i paesi.

La teoria di Ricardo sul commercio internazionale subì anche delle critiche: alcuni la ritenevano soltanto un mezzo per promuovere gli interessi dell’Inghilterra industriale.

Friedrich List si affermò come uno dei principali oppositori di questa teoria. Egli sosteneva che lo sviluppo economico tedesco necessitava di proteggere le sue industrie nascenti dalla concorrenza britannica attraverso l’imposizione di dazi doganali.

List argomentava che il concetto di vantaggio relativo di Ricardo era spesso il risultato di circostanze storiche più che di condizioni naturali, e che il libero scambio avvantaggiava principalmente la Gran Bretagna, relegando altri paesi a un ruolo di fornitori di materie prime e di prodotti agricoli.

Questa prospettiva prefigurava l’approccio della “scuola storica” tedesca, che avrebbe guadagnato rilevanza negli anni successivi enfatizzando l’importanza del contesto storico e delle peculiarità di ogni nazione nello sviluppo economico.

Il solito Galbraith, con la sua inconfondibile eleganza, descrive magistralmente il dibattito secolare sul libero scambio, un tema al centro della materia economica che continua a essere di grande attualità:

Nessun dibattito nella scienza economica si sarebbe rivelato così tenace come quello che oppone coloro che, concependo il libero scambio come una branca della teologia, non ammettono trasgressioni di nessun genere e coloro che, comprendendo le esigenze delle giovani imprese che lottano contro le vecchie, sono disposti a concedere una (limitata) assoluzione. Andò a finire che in tutti gli aspiranti paesi industriali l'eccezione venne ammessa: la protezione tariffaria fu concessa quasi dovunque alle industrie che si trovavano nello stadio dell'infanzia e dell'adolescenza, o comunque erano nuove. Molti continuavano a celebrare la verità di Adam Smith, ma in tutti i paesi che s'incamminavano sulla via dell'industrializzazione queste verità venivano adattate a circostanze regolarmente giudicate «speciali».

La prossima volta che sentiremo parlare di dazi per contrastare l'importazione di beni prodotti in paesi accusati di "sfruttamento del lavoro", "concorrenza sleale", "antidumping", e altre pratiche simili, ricordiamoci le origini di questo dibattito, che parte da lontanissimo ma, ancora oggi, continua a influenzare profondamente le dinamiche dei nostri sistemi economici.


La collezione di articoli sulla "Storia del pensiero economico" contiene:

1. Il progetto di organizzazione sociale di Platone

2. La critica di Aristotele alla dottrina economica di Platone

3. Tommaso d'Aquino

4. Il mercantilismo

5. I fisiocratici

6. L'economia classica: un nuovo approccio all'economia politica

7. L'economia classica: Smith e Ricardo – Il valore della merce

8. L'economia classica: La distribuzione del reddito

9. L'economia classica: Jean-Baptiste Say

10. L'economia classica: il pensiero di Malthus e Sismondi

11. L'economia classica: Il cammino verso lo stato stazionario e il commercio estero

12. L'economia classica: John Stuart Mill, l'ultimo economista classico

13. Il socialismo utopistico di Charles Fourier

14. Karl Marx

15. L'economia politica neoclassica

16. John Maynard Keynes

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