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Lazy portfolios

Lazy portfolios


12Lug2022

Information
Andrea Gonzali Lazy portfolios 25845 hits
Prima pubblicazione: 25 Gennaio 2019

«L’ambizione è la misera scusa di chi non ha abbastanza coraggio di esser pigro».

Milan Kundera

L'ebook dell'articolo e il libro in forma cartacea sono disponibili su Amazon: Lazy portfolios: Un'analisi approfondita e una guida pratica a una modalità di investimento semplice ed efficiente.

L'ebook e il libro in forma cartacea includono sia l'articolo principale che i 31 articoli di approfondimento dei 40 Lazy portfolios (capitoli 13.3.1-13.3.31).

I Lazy portfolios, detti portafogli pigri in italiano, sono una modalità di investimento che ha lo scopo di replicare un mix di indici attraverso gli ETF, mirando al raggiungimento della massima efficienza grazie al contenimento dei costi.

I Lazy portfolios, quindi, non pretendono di battere il mercato, ma si limitano a replicarlo sulla base di un asset allocation la cui rischiosità deve essere coerente con le caratteristiche e le esigenze dell'investitore.

Questo articolo, costituito da 21 capitoli (alcuni dei quali suddivisi in sottocapitoli) ha i seguenti obiettivi:

  • Presentare i vantaggi e gli svantaggi dei Lazy portfolios.
  • Approfondire il rischio di cambio dei Lazy portfolios.
  • Analizzare i Lazy portfolios attraverso backtest con ribilanciamenti annuali (in basso troverete i link ai 31 articoli di approfondimento):
    • Su tre diversi periodi: 1985-2020, 2000-2020 e 2010-2020.
    • Utilizzando 40 Lazy portfolios, la maggior parte dei quali molto conosciuti.
    • Backtestando i Lazy portfolios originali in USD, in USD→EUR (applicando la conversione in base ai valori giornalieri del tasso di cambio) e in EUR: una versione creata appositamente per gli investitori dell'area euro.
    • Effettuati sulla base di 11 modelli di ottimizzazione dei pesi degli ETF (2 statici, 5 dinamici vincolati e 4 dinamici non vincolati).
  • Verificare se l'applicazione di modelli di ribilanciamento dinamico vincolato e non vincolato riesca a produrre risultati migliori del ribilanciamento statico.
  • Aggiornare mensilmente i pesi ottimali dei 40 Lazy portfolios modello.
  • Analizzare i rendimenti rolling a 5 e 10 anni dei Lazy portfolios.
  • Quantificare l'impatto del costo della consulenza finanziaria e della gestione attiva.
  • Confrontare i Lazy portfolios con i fondi flessibili a gestione attiva.
  • Confrontare i Lazy portfolios con gli ETF Vanguard LifeStrategy.

Si tratta di un articolo molto lungo: è focalizzato sui portafogli pigri ma alcune parti sono applicabili anche ad altre modalità di investimento (ad esempio, il rischio di cambio, il costo della consulenza e così via).

Non c'è niente di sbagliato nel saltare subito alla lettura del capitolo 19 – dove si discutono le modalità di scelta del Lazy portfolio – o delle conclusioni. Il rischio, però, è quello di non comprendere appieno i vantaggi e i rischi dei portafogli pigri: quando si tratta di investire i propri soldi, è importante cercare di capire il più possibile e non improvvisare niente. 

Si consiglia la lettura dei capitoli nell'ordine proposto. Dall’indice è comunque possibile accedere direttamente a ciascuno di essi.

Indice

  1. Introduzione
  2. Vantaggi e svantaggi
  3. Integrazione delle serie storiche degli ETF con gli indici
  4. Il rischio di cambio
  5. Elenco dei principali Lazy portfolios (in USD e in EUR) e degli ETF che li costituiscono
  6. Criteri di scelta degli ETF
  7. Perché esistono così tanti Lazy portfolios?
  8. Limiti dell’approccio di ottimizzazione classico (Markowitz) e Hierarchical Risk Parity
  9. Procedura e modelli di ottimizzazione. Il ribilanciamento
  10. La strategia 1/N
  11. Lazy portfolios modello
  12. Classifiche finali: per portafoglio e per modello di ottimizzazione
    1. Lazy portfolios
    2. Modelli di ottimizzazione
    3. Heatmaps dei Lazy portfolios – Modelli di ottimizzazione
    4. Correlazione lineare tra i Lazy portfolios
  13. Analisi dei Lazy portfolios e presentazione dei risultati dei backtest
    1. Considerazioni generali sui Lazy portfolios e sulla diversificazione
    2. Primo e secondo livello di diversificazione
    3. Composizione, caratteristiche e risultati dei backtest di ogni Lazy portfolio
      1. World Bond
      2. World Stocks
      3. Two funds portfolios
      4. Warren Buffett
      5. Simple Path to Wealth
      6. Couch Potato
      7. Three Funds Bogleheads
      8. Second Grader’s Starter
      9. Talmud
      10. Margaritaville
      11. Andrew Tobias
      12. Gyroscopic Investing Desert
      13. Permanent
      14. Core Four
      15. Bogleheads Four Funds
      16. No Brainer
      17. Larry
      18. Golden Butterfly
      19. All Weather
      20. Ivy
      21. Dynamic 60/40 Income
      22. Dynamic 40/60 Income
      23. Five Asset
      24. David Swensen Lazy Portfolio
      25. Coffee House
      26. Rob Arnott
      27. Ultimate Buy and Hold Strategy
      28. Ultimate Buy & Hold
      29. Dedalo Three
      30. Dedalo Four
      31. Dedalo Eleven
  14. Rendimenti rolling dei Lazy portfolios a 5 e 10 anni
  15. L’impatto del costo della consulenza finanziaria e della gestione attiva
  16. Confronto tra fondi flessibili a gestione attiva e i Two funds Lazy portfolios
  17. ETF Vanguard LifeStrategy
  18. La gestione della parte obbligazionaria e della liquidità
  19. La scelta del Lazy portfolio
  20. Conclusioni
  21. Bibliografia

1. Introduzione

Introduzione dei Lazy portfolios
Henry Nelson O'Neil, The Lazy Girl (1861)

«I like the word 'indolence'. It makes my laziness seem classy».

Bernard Williams

I Lazy portfolios sono una soluzione d’investimento che consiste nella replica di una certa asset allocation utilizzando pochi ETF.

I vantaggi dei Lazy portfolios verranno approfonditi nel secondo capitolo, ma le loro caratteristiche principali sono la replica passiva del mercato, i costi molto contenuti e la facilità nella loro costruzione e gestione.

In italiano vengono definiti portafogli pigri e il loro nome prende spunto dall'essere concepiti come strumenti di investimento a lungo termine, con pochi ribilanciamenti da effettuare periodicamente: di solito, non più di una volta all'anno.

I Lazy portfolio si sono sviluppati a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, quando John Bogle ebbe l’idea di creare gli “Index funds”, ovvero dei fondi indicizzati che replicano un indice di riferimento (benchmark).

La replica implicava la rinuncia a ogni tentativo di far meglio del benchmark: John Bogle aveva appena inventato la gestione passiva degli investimenti finanziari.

Gli ETF sono stati l’evoluzione naturale degli index funds, con i quali condividono l'approccio passivo, ma vengono quotati in negoziazione continua in molti mercati borsistici, esattamente come le azioni.

Gli ETF possono essere comprati o venduti durante tutto l’arco di apertura di una sessione borsistica, a prezzi che non sono necessariamente uguali al loro NAV.

Il passaggio dai fondi comuni a gestione attiva a quelli a gestione passiva sembra scontato, oggi. Anzi, viene da chiedersi perché si sia dovuto aspettare fino alla metà degli anni ’70 per vedere la nascita dei primi fondi indicizzati.

In realtà, fu un vero e proprio cambio di paradigma: nel 1975 John Bogle fondò “The Vanguard Group” e dette vita al “The Vanguard Experiment”, che aveva lo scopo di lanciare la gestione passiva dei fondi comuni d’investimento.

Questa novità fu accolta con molto scetticismo. Molte furono le critiche ricevute, tra le quali le accuse di essere antiamericano e di incentivare la mediocrità.

Il tempo ha dimostrato che John Bogle aveva ragione.

Gli strumenti oggi di gran lunga più utilizzati nei portafogli pigri sono gli ETF.

Esistono molti tipi di portafogli pigri: i più semplici sono composti da uno o due soli ETF; i più complessi arrivano fino a 12 ETF (che sembra essere la soglia massima, anche se ovviamente ciascuno è libero di includerne un numero maggiore nel suo portafoglio).

Definire un portafoglio con l’aggettivo “pigro” non lo rende molto accattivante.

Nella nostra società, la pigrizia è considerata un atteggiamento negativo: le persone pigre sono quelle che non hanno troppa voglia di studiare, lavorare o fare qualcosa in generale. In un certo senso, pigrizia è sinonimo di insuccesso.

Nei mercati finanziari non è così. I mercati finanziari funzionano in maniera diametralmente opposta: meno l’investitore interferisce, meglio è.

Le uniche eccezioni sono costituite dagli investitori professionali, che comunque non hanno vita facile per battere il mercato.

Intesa nel senso di rinuncia a intervenire o a modificare il proprio portafoglio prima del raggiungimento dell’orizzonte temporale d’investimento stabilito, la pigrizia è una qualità positiva ed estremamente rara.

Non è un concetto banale. I mercati finanziari sono controintuitivi ed è per questo che gli investitori non riescono, generalmente, a ottenere gli stessi rendimenti del mercato: non agiscono seguendo la strada più semplice e – nei mercati finanziari – semplice è molto spesso sinonimo di efficiente.

Aspettare senza far niente è ciò che una corretta gestione degli investimenti finanziari richiede.

Se arriva un’improvvisa crisi finanziaria, l’investitore non si deve comportare come un imprenditore: l’imprenditore deve reagire, rispondere alle mutate condizioni del mercato in fretta, prendere le contromisure più adatte per la sua azienda.

L’investitore no: deve limitarsi a non interferire e aspettare che la tempesta sia passata. Nel caso in cui agisca in modo improvvisato, senza rispettare la strategia iniziale, rischia di mandare all'aria ciò che di buono ha fatto fino a quel momento.

Come questa analisi cercherà di dimostrare, i portafogli pigri sono uno dei più potenti strumenti a disposizione degli investitori per raggiungere i loro obiettivi di investimento.

2. Vantaggi e svantaggi

Vantaggi e svantaggi dei Lazy portfolios
Paolo Veronese, Giovane tra virtù e vizio (1580-1582)

«Un uomo che non legge buoni libri non ha alcun vantaggio rispetto a quello che non sa leggere».

Mark Twain

I principali vantaggi degli ETF sono:

  1. Semplicità
  2. Basso costo
  3. Diversificazione

Semplicità

Comprare un paio di ETF ed effettuare un ribilanciamento una volta all’anno è semplice. Gli ETF potrebbero essere anche qualcuno in più e la mole di lavoro non crescerebbe granché.

Questo vantaggio non è peculiare dei Lazy portfolios: vale anche per gli investitori che utilizzano i fondi a gestione attiva.

Presi singolarmente, i vantaggi elencati non sono esclusivi dei Lazy portfolios: tutti insieme, però, li possiamo trovare soltanto in questa tipologia di portafogli.

Basso costo

Il costo degli ETF è molto più basso di quello dei fondi a gestione attiva. Non si tratta di una piccola differenza: gli ETF costano circa 10 volte meno.

Un risparmio dell’1% di costi all’anno potrebbe non essere rilevante se le cifre in gioco sono piccole o se l’investimento è di breve termine. Nel lungo periodo, però, il costo totale non è uguale al numero di anni moltiplicato 1%: se il trend del mercato è crescente, può essere molto più grande, perché il costo-opportunità di ogni 1% pagato (e, di conseguenza, non reinvestito) è pari al suo controvalore capitalizzato per il numero di anni dell’investimento (capitalizzazione effettuata al tasso di rendimento annualizzato dell’investimento stesso).

Un esempio aiuterà a capire meglio: ipotizziamo che un capitale di 100.000 euro venga investito su un fondo a gestione attiva per 20 anni, con commissioni di gestione pari all’1,20% all’anno. Alternativamente, si potevano investire i 100.000 euro su un ETF della stessa categoria con commissioni di gestione pari allo 0,20% all’anno (sempre per 20 anni). Esattamente un 1% di differenza.

Ipotizziamo, inoltre, che se le commissioni non fossero state conteggiate e addebitate direttamente sui NAV dei due fondi, entrambi avrebbero generato un rendimento del 5%. Questo significherebbe, una volta sottratte le commissioni di gestione, un rendimento del 3,8% e del 4,8% all’anno.

Quanto ci è costato, in tutto, questo 1% di commissioni in più all’anno?

Molto: per la precisione, 44.565,68 euro. Ben più di 1.000 euro all’anno (1% di 100.000 euro) per 20 anni: questo maggior costo è dovuto al rendimento perso a causa del mancato reinvestimento di quell’1% all’anno.

Se invece dell’1% o di un periodo di 20 anni avessimo scelto dei valori superiori, come ad esempio 1,5% e 30 anni, il costo totale sarebbe salito rispettivamente a 66.974,37 euro (1,5% per 20 anni), 102.027,18 euro (1% per 30 anni) e 143.311,66 euro (1,5% per 30 anni).

Vediamo graficamente l’ipotesi di un 1% di differenza nei costi:

Crescita 100000 euro 

Sono cifre notevoli, che crescerebbero ancora se, invece di un rendimento del 5% al lordo dei costi, ne ipotizzassimo uno superiore (e viceversa).

Il vecchio adagio che recita “i costi sono certi, i rendimenti no” è valido più che mai.

Vedremo ancora meglio nel capitolo 15 quanto le spese correnti o il costo della consulenza impattino sui rendimenti dei Lazy portfolios che esamineremo.

La minimizzazione dei costi è la condizione che, nel lungo termine, permetterà di ottenere un rendimento finale più alto.

Diversificazione

La diversificazione è una regola fondamentale negli investimenti.

Diversificare significa investire il capitale in più asset, possibilmente utilizzando più strumenti finanziari: la diversificazione serve a diminuire il rischio di una grossa perdita dovuta a una forte riduzione del prezzo dell'unico asset o dell'unico titolo in portafoglio.

In altre parole, significa non mettere tutte le uova nello stesso paniere: vecchia saggezza popolare applicata alla finanza.

Avevamo detto che, in un portafoglio pigro, potevamo avere anche uno o due soli ETF: di che diversificazione stiamo allora parlando?

In primis, di  quella fornita dagli stessi ETF: strumenti finanziari che contengono al loro interno decine, centinaia o migliaia di azioni o di obbligazioni.

Possedere anche una sola quota di un ETF significa detenere una piccola percentuale di ognuna di esse.

La diversificazione non è soltanto espressione di buon senso: in ambito finanziario ne è stata dimostrata l'utilità, anche matematicamente, fin dal 1952, quando Harry Markowitz pubblicò il suo primo importante contributo nell’articolo intitolato Portfolio Selection, che dette origine alla Teoria Moderna del Portafoglio.

Il concetto di diversificazione verrà ripreso nel capitolo 13.2.

I Lazy portfolios hanno anche alcuni inconvenienti:

  1. Alta volatilità
  2. Inefficienza fiscale degli ETF

Alta volatilità

Nonostante l’elevata diversificazione, molti portafogli pigri sono volatili.

Affronteremo la volatilità nelle nostre analisi e vedremo se e come sia possibile mitigarla, senza rinunciare a un livello eccessivo di rendimento atteso.

Perseguiremo questo obiettivo in vari modi; anche rendendo flessibili le percentuali delle asset class che compongono i Lazy portfolios.

Inefficienza fiscale degli ETF

Il problema dell’inefficienza fiscale non riguarda soltanto gli ETF, ma gli OICR in generale.

Verrebbe naturale pensare che una minusvalenza e una plusvalenza realizzate con due ETF diversi o, addirittura, con lo stesso ETF, possano essere compensate.

In realtà, a causa del regime fiscale che è stato riservato loro dal legislatore, questa semplice operazione non è possibile: non è ammessa la compensazione tra minusvalenze e plusvalenze perché le prime sono assimilate a redditi diversi e le seconde a redditi di capitale.

Vediamo meglio che cosa viene considerato reddito di capitale o reddito diverso:

  • Reddito di capitale:
    • Plusvalenze generate dalla differenza positiva tra prezzo di vendita e di acquisto degli ETF.
    • Proventi erogati dagli ETF a distribuzione.
  • Reddito diverso:
    • Minusvalenze generate dalla differenza negativa tra prezzo di vendita e di acquisto degli ETF.

Le minusvalenze non possono perciò essere compensate né con le plusvalenze né con i proventi erogati dagli ETF a distribuzione, proprio a causa della diversa natura del reddito che generano.

Le minusvalenze costituiscono un credito d’imposta che può abbattere altri redditi diversi positivi nell’anno in cui sono state realizzate o nei 4 anni successivi.

Questo discutibile regime fiscale è all’origine di inefficienze forse peggiori: esse si producono quando gli investitori vogliono a tutti i costi inserire nei loro portafogli strumenti finanziari le cui plusvalenze siano considerate “Reddito diverso” per poter compensare le eventuali minusvalenze degli ETF.

Rientrano tra queste le plusvalenze generate dalla negoziazione di:

  • Azioni
  • Obbligazioni
  • Derivati
  • ETC ed ETN
  • Certificati

Sono tutti prodotti che aumentano la concentrazione del portafoglio (azioni e obbligazioni) e/o la sua rischiosità: i derivati e i certificati sono strumenti finanziari complessi e dovrebbero essere trattati soltanto da professionisti; purtroppo, sempre più spesso si trovano anche nei portafogli dei normali investitori che, in molti casi, non hanno compreso fino in fondo il rischio che si stanno assumendo.

Gli ETC e gli ETN sono concettualmente simili agli ETF ma, rispetto a questi, sono più pericolosi a causa della presenza del rischio emittente: in caso di fallimento della società che li ha emessi, l’investitore corre il rischio di perdere una parte o tutto il capitale in essi investito.

La differenza tra gli ETC e gli ETN è che mentre i primi hanno come sottostante le materie prime, gli ETN replicano l’andamento di indici azionari, obbligazionari, valute e così via.

Gli ETC, in particolare, non sono necessariamente da evitare e, in certi casi, sono l’unico strumento finanziario a disposizione dell’investitore: ad esempio, se si vuole includere l’oro nel portafoglio, gli ETC a replica fisica sono lo strumento migliore da utilizzare (come vedremo, gli ETC saranno inseriti anche in alcuni dei Lazy portfolios che analizzeremo).

L’inefficienza fiscale degli ETF non deve essere vista come un ostacolo: in particolare, l’approccio passivo all’investimento punta all’ottenimento di rendimenti positivi di lungo termine e le eventuali minusvalenze – di importo non eccessivo – dovrebbero generarsi soltanto in fase di ribilanciamento del portafoglio.

3. Integrazione delle serie storiche degli ETF con gli indici

Integrazione delle serie storiche degli ETF con gli indici
Lidy Prati, Serial composition (1948)

«Great things are done by a series of small things brought together».

Vincent van Gogh

Quando si analizzano le performance passate dei portafogli pigri, sarebbe importante effettuare i backtest di strumenti finanziari dalle serie storiche molto lunghe.

Purtroppo, gli ETF sono prodotti finanziari relativamente recenti e, soprattutto in Italia, hanno raggiunto la notorietà soltanto nel primo decennio di questo secolo. Di conseguenza, la maggior parte di essi non dispone di serie storiche lunghe a sufficienza.

Per ovviare a questo problema, per le date antecedenti a quelle di lancio di ciascun ETF sfrutteremo i rendimenti di indici molto simili a quelli che gli stessi ETF hanno lo scopo di replicare.

È una soluzione di comodo, largamente utilizzata da numerosi servizi e siti finanziari. In realtà, spesso ne viene fatto un uso improprio, dal momento che gli indici non dovrebbero essere impiegati per prolungare le serie storiche di fondi a gestione attiva: l’andamento del mercato potrebbe essere stato anche molto diverso da quello di un fondo composto da un campione di titoli sovra o sottopesati a discrezione del gestore.

Questo tipo di utilizzo ha molto più senso con i portafogli pigri, perché la differenza tra i valori degli indici e degli ipotetici ETF che avrebbero dovuto replicarli sarebbe stata minima.

Tuttavia, l’uso delle serie storiche pure degli indici altera l’analisi: gli indici non includono le spese correnti, mentre gli ETF sì (per quanto basse). Per eliminare questa distorsione, applicheremo artificiosamente i costi di ciascun ETF anche ai rispettivi indici.

Quello che faremo, cioè, sarà ridurre il rendimento giornaliero di ciascun indice per la quota parte giornaliera della percentuale annuale di spese correnti applicate all’ETF.

Non è una soluzione perfetta, ma è sempre meglio di niente: si tratta di un modo per rendere le simulazioni ancora più realistiche.

Tutti gli indici sono utilizzati in versione Total Return: letteralmente, Total Return significa “rendimento complessivo”, dato che include sia la rivalutazione del capitale che il reinvestimento dei proventi derivanti da dividendi o cedole.

Con l’integrazione delle serie storiche degli ETF e quelle degli indici e con l’applicazione delle spese correnti degli ETF anche agli indici, i backtest dei portafogli pigri – nonché eventuali confronti con altre strategie – saranno più robusti.

L’elenco degli indici impiegati nelle nostre analisi è il seguente:

  • Azionari Area Asia/Pacifico (Giappone escluso)
  • Azionari Area Euro Large Cap
  • Azionari Area Euro Mid Cap
  • Azionari Area Euro Settore Immobiliare
  • Azionari Europa Large Cap Value
  • Azionari Europa Small Cap
  • Azionari Giappone Large Cap
  • Azionari Internazionali Large Cap Blend
  • Azionari Internazionali Large Cap Value
  • Azionari Internazionali Small/Mid Cap
  • Azionari Paesi Emergenti
  • Azionari Svizzera
  • Azionari UK Large Cap
  • Azionari USA – Wilshire 5000
  • Azionari USA Small Cap – Wilshire US Small Cap
  • Azionari USA Small Cap Value – Wilshire US Small Cap Value
  • Azionari USA Large Cap – Wilshire US Large Cap
  • Azionari USA Large Cap Value – Wilshire US Large Cap Value
  • Azionari USA Settore Immobiliare – Wilshire US REIT
  • Monetari Breve Termine
  • Obbligazionari Corporate EUR
  • Obbligazionari Globali
  • Obbligazionari Globali EUR Hedged
  • Obbligazionari Governativi Breve Termine EUR
  • Obbligazionari Governativi EUR
  • Obbligazionari High Yield EUR
  • Obbligazionari Inflation-Linked EUR
  • Obbligazionari Paesi emergenti EUR
  • Obbligazionari USA Corporate – ICE BofA US Corporate Index
  • Obbligazionari USA Diversificati Breve Termine
  • Obbligazionari USA High Yield – ICE BofA US High Yield Index
  • S&P 500
  • S&P US Preferred Stocks

4. Il rischio di cambio

Il rischio di cambio
Claude Monet, The Pont de l'Europe, Gare Saint-Lazare (1877)

«The first panacea for a mismanaged nation is inflation of the currency; the second is war. Both bring a temporary prosperity; both bring a permanent ruin. But both are the refuge of political and economic opportunists».

Ernest Hemingway

Come è noto, le valute più importanti e più utilizzate al mondo sono il dollaro (USD) e l’euro (EUR). Sono anche le più scambiate in assoluto.

Esistono però anche altre valute di grande rilevanza internazionale: lo yen giapponese (JPY), la sterlina inglese (GBP), il franco svizzero (CHF), il dollaro australiano (AUD) e canadese (CAD), il renminbi cinese (CNH), la corona svedese (SEK) e così via.

La realizzazione di backtest che non tengano conto delle differenze valutarie è molto comune: in fin dei conti, le serie storiche dei rendimenti sono una sequenza di numeri puri ed è facile dimenticarsi che quei rendimenti sono, in realtà, l’espressione di un incremento o un decremento di un prezzo espresso in una specifica valuta.

Se questa valuta non è quella utilizzata dall’investitore, c’è il rischio di perdita del potere di acquisto della valuta locale: in altre parole, siamo in presenza del rischio di cambio.

Un esempio aiuterà a capire meglio l’impatto che il rischio di cambio può avere sul rendimento di un investimento.

Ipotizziamo di comprare 10 quote di un ETF composto da titoli azionari statunitensi, al prezzo di 100 USD dollari ciascuna. L’ETF è quotato in USD e la spesa totale per questo investimento (ignoriamo per semplicità le commissioni di transazione) è pari a 1.000 USD. Supponiamo che il tasso di cambio EUR/USD sia pari a 1. Il controvalore in euro sarà, ovviamente, pari a 1.000 EUR.

Dopo un certo periodo di tempo vendiamo le nostre 10 quote. Ipotizziamo che il valore di ciascuna quota sia rimasto invariato a 100 USD, mentre il tasso di cambio EUR/USD, invece, si sia deteriorato a sfavore del dollaro, essendo adesso pari a 0,909 (1 USD = 0,909 EUR ovvero 1 EUR = 1,10 USD).

Il flusso di cassa originato dalla vendita delle quote sarà quindi pari a 1.000 USD = 909 EUR. Sebbene il rendimento puro del fondo sia stato dello 0% (il prezzo di ciascuna quota è rimasto invariato), abbiamo subito una perdita del 9,09%.

Lo stesso ETF quotato in euro avrebbe prodotto lo stesso risultato. L’unica differenza sarebbe stata nel suo prezzo, già convertito in euro: al momento della vendita, avremmo ricavato gli stessi 909 euro, generati da 10 quote del valore di 90,9 euro ciascuna.

Ovviamente, il tasso di cambio EUR/USD poteva modificarsi a nostro favore: se avessimo avuto fortuna e il tasso di cambio fosse salito a 1,10, al momento della vendita delle quote dell’ETF avremmo incassato 1.100 euro (1 EUR = 0,909 USD → 1 USD = 1,10 EUR), con un rendimento positivo del 10%.

Il rischio di cambio, se presente, aumenta la rischiosità di un investimento. Nel nostro esempio, e in generale in tutti gli investimenti finanziari in cui è presente, il rischio di cambio si aggiunge al rischio di mercato.

Se l’orizzonte temporale dell’investimento è di lungo termine, un’opinione molto diffusa è che non ci si debba preoccupare troppo del rischio di cambio tra dollaro ed euro: il cambio tenderebbe sempre a tornare verso un ipotetico valore medio.

Premesso che non esistono conferme scientifiche di questa affermazione, proviamo a verificarne la validità graficamente, analizzando l’andamento del tasso di cambio USD/EUR dal 1° gennaio 1985 al 31 dicembre 2020:

01 USDEUR 1985 2020

La media si colloca intorno a 1,18 (1 euro = 1,18 dollari) ed è rappresentata dalla linea orizzontale rossa. Effettivamente, si può vedere come questo valore sia stato incrociato più volte, verso l’alto e verso il basso.

Il problema è che negli anni il tasso di cambio è oscillato molto, con il minimo raggiunto nel febbraio 1985 (0,6444) e il massimo ad aprile 2008 (1,5990). La volatilità delle oscillazioni (deviazione standard annualizzata) è stata pari a 0,5490: un valore elevato (0,1585 è la volatilità non annualizzata).

Sono fluttuazioni importanti: nell’esempio fatto in precedenza, se le 10 quote dell’ETF a 100 dollari ciascuna fossero state acquistate il 25 ottobre 2000, il loro controvalore per un investitore dell’area euro sarebbe stato pari a 1.209,48 euro (il valore del tasso di cambio USD/EUR di quel giorno era pari a 0,8268).

Ipotizzando la vendita delle stesse 10 quote il 22 aprile 2008 (per assurdo, supponiamo che il prezzo di ogni quota fosse ancora esattamente 100 dollari), il controvalore dei 1.000 dollari sarebbe stato stavolta pari a soli 625,39 euro.

L’investimento si sarebbe chiuso con una perdita del 48,29%, da addebitarsi interamente al rischio di cambio.

L’esempio appena fatto rappresenta un caso estremo. Tuttavia, pensare di sterilizzare il rischio di cambio semplicemente assumendo che al momento dell’acquisto esso sia più o meno uguale a quello della vendita – che potrebbe potenzialmente avvenire a molti anni o addirittura decenni di distanza – è una palese forzatura.

Se le cose non andassero nella direzione giusta, il rischio di cambio potrebbe costare molto caro.

Vediamo quante volte, nell’arco di 5, 10, 15, 20, 25 e 30 anni, il cambio USD/EUR è stato favorevole o sfavorevole all’investitore tra il 1985 e la fine del 2020.

La tabella seguente ci fornisce le risposte cercate:

Casi favorevoli e sfavorevoli all'investitore in euro
Differenza tra il tasso di cambio USD/EUR di fine e inizio investimento
N5 anni10 anni15 anni20 anni25 anni30 anni
N 8,057 6,797 5,537 4,277 3,017 1,757
Casi favorevoli 4,003 3,494 1,790 930 1,384 742
% 49.68% 51.41% 32.33% 21.74% 45.87% 42.23%
Casi sfavorevoli 4,054 3,303 3,747 3,347 1,633 1,015
% 50.32% 48.59% 67.67% 78.26% 54.13% 57.77%

Indipendentemente dalla lunghezza dell’investimento, negli ultimi 35 anni il cambio è stato favorevole non più del 50% delle volte.

Il Forex è il mercato più grande e, forse, più efficiente del mondo: all’interno del Forex, la coppia di valute euro/dollaro è quella più scambiata in assoluto. I risultati riportati nella tabella non ci devono perciò sorprendere (possiamo associare al caso le basse percentuali di casi favorevoli nei periodi dai 15 anni in su).

Nel grafico seguente viene visualizzata la distribuzione delle frequenze delle variazioni del tasso di cambio in base alla durata dell’investimento:

02 Distribuzione tutte

Gli istogrammi rossi rappresentano le densità di frequenza del cambio sfavorevole all’investitore: più l’istogramma è a destra, maggiore è stato l’impatto negativo.

Gli istogrammi verdi sono invece quelli relativi alle densità di frequenza del cambio favorevole all’investitore: più l’istogramma è a sinistra, maggiore è stato l’impatto positivo.

Anche se, per pura coincidenza, il tasso di cambio fosse lo stesso al momento di inizio e di fine investimento, c’è un’altra importante misura statistica – quasi sempre ignorata nel contesto di questa analisi – che verrebbe influenzata pesantemente: la volatilità.

Durante la vita dell’investimento, infatti, il tasso di cambio ha un impatto sui rendimenti del sottostante, amplificandoli o diminuendoli, e la volatilità aumenta di conseguenza.

Nei capitoli 13.3 e 14 questo fenomeno sarà approfondito con l’ausilio di numerosi grafici.

Il tasso di cambio tra due valute dipende da molti fattori macroeconomici che caratterizzano gli Stati in cui circolano tali valute: tra i più importanti troviamo il differenziale tra i tassi di inflazione, quello tra i tassi di interesse, i deficit di bilancio, il debito pubblico, la bilancia dei pagamenti, l’andamento economico e così via.

La prevedibilità dei tassi di cambio è oggetto di studio da molti decenni. Nel seguito di questo capitolo analizzeremo alcune teorie che definiremo “Naif”, in quanto abbastanza note tra gli investitori ma che non si basano su rigorosi studi o sulla pubblicazione di articoli scientifici. Daremo poi un’occhiata agli orientamenti più diffusi tra quelli che – in materia di prevedibilità dei tassi di cambio – circolano nella letteratura accademica e scientifica.

1° TEORIA NAIF → Se il dollaro si svaluta nei confronti dell’euro, la borsa americana cresce di più

Una delle teorie utilizzate per giustificare l’utilizzo di titoli in dollari (o di altre valute diverse dall’euro) nei portafogli finanziari degli investitori dell’area euro sostiene che se il dollaro si svaluta nei confronti dell’euro, le aziende americane ne beneficiano perché – sfruttando la debolezza relativa del dollaro – possono aumentare le loro esportazioni.

Le maggiori esportazioni implicano un aumento delle vendite, dei ricavi e quindi dei profitti aziendali: si verificherebbe allora una crescita del mercato azionario statunitense superiore a quella che ci sarebbe stata se il dollaro fosse stato più forte.

L’investitore dell’area euro, pur essendo sfavorito dalla svalutazione del dollaro, otterrebbe un beneficio in termini di rendimento dei titoli in dollari presenti nel suo portafoglio.

Se questo fosse vero, dovremmo riscontrare una stabile correlazione lineare negativa tra l’andamento dell’USD/EUR e quello del mercato azionario americano.

I grafici seguenti mostrano la correlazione lineare rolling a 5, 10, 15, 20, 25 e 30 anni tra l’USD/EUR e l’indice S&P 500 Total Return nel periodo compreso tra gennaio 1985 e dicembre 2020:

03 Correlazione tutti

La correlazione lineare varia nel tempo: è negativa per una buona parte di esso ma non sempre; soprattutto, lo è sempre di meno con l’aumentare del suo periodo di calcolo.

Molte volte la correlazione lineare è positiva e lo rimane per numerosi anni di fila.

2° TEORIA NAIF → Se il dollaro si svaluta nei confronti dell’euro, basta allungare l’orizzonte temporale d’investimento

Qualcuno ritiene che, nel caso in cui il rapporto di cambio non sia favorevole, si debba aspettare un po’ di tempo in più prima di liquidare l’investimento: nel nostro esempio, siccome il cambio USD/EUR tende a regredire verso la media, prima o poi esso tornerebbe intorno a 1,18.

Questa maggiore attesa potrebbe scontrarsi con l’orizzonte temporale dell’investimento:

  • Non è detto che l’investitore si possa permettere di aspettare.
  • Non è detto che l’ipotetica regressione verso la media del tasso di cambio si verifichi nei tempi e nei modi auspicati dall’investitore.

Il temporeggiamento come strategia di uscita viene suggerito anche negli investimenti azionari: è vero che il rischio di ottenere un rendimento negativo è tanto più grande quanto più l’orizzonte temporale di investimento è breve, ma basta poter aspettare fino a 3-4 anni in più e, molto probabilmente, il risultato tornerà a essere positivo.

Una certa flessibilità nella lunghezza dell’orizzonte temporale sarebbe cioè un’arma in più, pronta per essere utilizzata quando le cose non vanno nella direzione giusta.

Se per i mercati azionari questa strategia è plausibile, quando di mezzo ci sono i tassi di cambi la questione rischia di prendere una brutta piega: i tassi di cambio non hanno una tendenza crescente nel lungo periodo come i mercati azionari e non è assolutamente detto che una maggiore attesa favorisca il ritorno del segno più nel rendimento di un investimento.

3° TEORIA NAIF → La diversificazione valutaria è un fattore positivo

Un’altra giustificazione all’assunzione del rischio di cambio è quella della maggior diversificazione del portafoglio, accentuata dalla presenza di altre valute: l’affermazione è corretta in linea teorica, ma la diversificazione valutaria aumenta o diminuisce il rischio complessivo dell’investimento?

Dai grafici e dalla tabella precedente, sembra proprio che l’investitore si assuma un rischio maggiore: forse si parla con troppa nonchalance di “effetto benefico della diversificazione valutaria”.

Ci sono troppe domande alle quali questa teoria non fornisce risposte:

  • Basta un’altra valuta o è meglio avere più di due valute in portafoglio?
  • Va bene qualsiasi valuta o è un discorso valido solo per le valute forti?
  • L’impatto è positivo nel breve o nel medio/lungo termine?
  • Come si dimostra che la diversificazione valutaria abbia effetti benefici in termini di rendimento e di volatilità dell’investimento superiori a quelli negativi generati da tassi di cambio che vanno nella direzione sfavorevole all’investitore?
  • Qual è la giusta percentuale di portafoglio che dovrebbe essere lasciata in balia del rischio di cambio?

Un po’ di diversificazione valutaria forse non guasta ma, se si esagera, gli effetti negativi non tarderanno a manifestarsi.

Nei capitoli 13.3 e 14 approfondiremo l’analisi dell’impatto del rischio di cambio sulle performance dei 40 Lazy portfolios che saranno studiati.

Letteratura sulla stima dei tassi di cambio

Esistono numerosissimi articoli accademici e scientifici che trattano la stima dei tassi di cambio: le opinioni sono, ancora oggi, contrastanti.

Uno dei più importanti contributi in materia è stato l’articolo del 1982 di Meese e Rogoff: Empirical exchange rate models of the seventies: Do they fit out of sample?

Gli autori sostengono che sia impossibile prevedere l’andamento dei tassi di cambio: il modello random walk non produrrebbe risultati peggiori di quelli generati dalle stime ottenute da modelli di serie storiche univariate, modelli autoregressivi vettoriali o modelli strutturali costruiti su tre importanti tassi di cambio (dollaro/marco tedesco, dollaro/sterlina inglese e dollaro/yen).

Sulla stessa linea di Meese e Rogoff si sono schierati molti altri studiosi, tra i quali ricordiamo Kilian e Taylor, Rossi, Rashid, Moosa e Burns, Marçal e Hadad Junior.

È abbastanza numerosa anche la schiera di coloro che la pensano in maniera diversa: tra questi, Canova, Engel, Mark e West, Lam, Fung e Yu.

Ritenere che i tassi di cambio non siano casuali (generati cioè da un modello random walk) non significa affatto che siano facilmente prevedibili: i modelli che secondo alcuni autori riescono a ottenere risultati migliori del random walk sono molto complicati e funzionano soltanto su alcune coppie di valute: siamo molto lontani dall’aver trovato una risposta universale e gli stessi promotori suggeriscono di utilizzare le previsioni dei tassi di cambio generate dai modelli studiati con cautela.

In conclusione, non è detto che assumersi un certo grado di rischio di cambio negli investimenti finanziari sia per forza da evitare ma, se si vogliono evitare spiacevoli sorprese, il rischio di cambio è un fattore da prendere in considerazione, adottando le giuste contromisure.

L’investitore dell’area euro che decide di crearsi un portafoglio multi-valuta dovrebbe esserne consapevole e pronto a subirne le conseguenze se le cose non dovessero andare nel verso giusto.

5. Elenco dei principali Lazy portfolio (in USD e in EUR) e degli ETF che li costituiscono

Elenco dei principali lazy portfolio (in USD e in EUR) e degli ETF che li costituiscono
Ramon Casas, Laziness (1900)

«Lists today are a way of trying to get through the day, because we are losing a sense of time».

David Viscott

Il numero di portafogli pigri che si possono costruire è illimitato: gli ETF sono tantissimi e di uno stesso portafoglio si possono creare molte varianti anche semplicemente modificando i pesi degli ETF stessi.

Il numero di ETF che compongono un Lazy portfolio è variabile: si va generalmente dal singolo ETF ai 12 ETF.

Nella tabella seguente saranno elencati i Lazy portfolios che analizzeremo: il loro studio ci servirà a capire le caratteristiche e le performance di ciascuno di essi.

Di questi Lazy portfolios, forniremo i pesi ottimali su base mensile (i pesi verranno generati da alcuni modelli di ottimizzazione di cui parleremo nei capitoli successivi).

I pesi ottimali più recenti possono essere consultati al seguente link (per avere accesso è necessario sottoscrivere un abbonamento PRO): Lazy portfolios modello.

I Lazy portfolios sono nati negli Stati Uniti e la loro composizione originaria è pensata per l’investitore americano: la valuta predominante è il dollaro e l’area geografica di riferimento della maggioranza degli ETF, sia azionari che obbligazionari, è quella statunitense.

Purtroppo, la loro composizione non è ideale per un investitore appartenente a un’area geografica dove circola una valuta diversa dal dollaro.

Gli ETF che costituiscono questi Lazy portfolios, inoltre, sono tutti non armonizzati. Gli ETF non armonizzati sono quelli non conformi alle regolamentazioni dell’Unione Europea (UCITS) e sono caratterizzati da un regime fiscale sfavorevole.

Per ovviare a questi inconvenienti, analizzeremo sia la variante originaria di ciascun portafoglio, sia quella adattata a un investitore dell’eurozona. Questa seconda variante sarà denominata in euro e, laddove possibile, il mercato statunitense sarà sostituito con quello dell’eurozona o, per sfruttare una maggiore diversificazione, dal mercato europeo o globale.

Ecco la lista dei Lazy portfolio che saranno oggetto del nostro studio:

Asset allocation dei Lazy portfolios1
Composizione dei Lazy portfolios e nome degli ETF che li compongono (USD e EUR)
Asset allocationETF e Indici replicati
AzioniBondComm.Asset ClassETF (USD)ETF (EUR)Peso
World Bond: 1 ETF
0% 100% 0% U.S., Intermediate-Term iShares 7-10 Year Treasury Bond (IEF)