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Il Value Investing e l'analisi fondamentale sono le migliori strategie di investimento?

Il mito del Value Investing e dell'analisi fondamentale: funzionano davvero o sono più complessi di quanto si creda?


02Giu2025

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Andrea Gonzali Strategie 5231 hits
Prima pubblicazione: 13 Dicembre 2020 Stampa

«Don't be seduced into thinking that that which does not make a profit is without value».

Arthur Miller

L'analisi fondamentale è il metodo che gli investitori usano da decenni per stimare il valore reale di una società attraverso lo studio dei bilanci e delle prospettive di crescita aziendali.

Questa strategia nasce negli anni '30 del secolo scorso dalla mente di due professori della Columbia University: Benjamin Graham e David Dodd.

Il loro approccio ha formato intere generazioni di investitori professionali, tra cui Warren Buffett.

Il libro Security Analysis, pubblicato nel 1934 e aggiornato più volte negli anni seguenti, e The Intelligent Investor del 1949, scritto dal solo Benjamin Graham, sono tuttora considerati la bibbia del Value Investing: entrambi sostengono l’importanza di un’analisi rigorosa e di un approccio razionale, fondamento stesso del Value Investing.

Nonostante la diffusione dell’analisi fondamentale e l’autorevolezza acquisita nel tempo, pochissimi gestori e analisti riescono ad applicarla con successo in modo sistematico, ottenendo rendimenti superiori a quelli del mercato a parità di rischio.

Le difficoltà sono molteplici e vanno ben oltre la semplice capacità di leggere un bilancio: tra standard contabili differenti, stime soggettive e criteri discrezionali adottati dalle aziende, la comparabilità dei dati finanziari è spesso difficoltosa.

Chi sceglie di basarsi sull’analisi fondamentale deve essere pienamente consapevole di questi ostacoli, se vuole evitare errori di valutazione potenzialmente molto costosi.

Il principio base del Value Investing è la stima del cosiddetto “valore intrinseco” o “valore fondamentale” di un’azienda, ovvero quanto dovrebbe realmente valere ciascuna azione quotata tenendo conto del patrimonio, dei flussi di cassa e degli utili futuri.

Nella sua versione più semplice, il valore intrinseco stimato viene confrontato con il prezzo delle azioni: se quest’ultimo risulta inferiore al valore intrinseco, l’azione è considerata sottovalutata e rappresenta un’opportunità d’acquisto.

L’ipotesi di fondo è che, nel medio/lungo periodo, il mercato tenda a colmare eventuali differenze tra prezzo e valore, riportando il primo verso il secondo e generando un profitto per chi ha saputo riconoscere la sottovalutazione.

Negli ultimi vent’anni, tuttavia, il Value Investing ha vissuto un periodo difficile, generando rendimenti minori delle aspettative e sollevando dubbi sulla validità di questa strategia nel lungo termine.

Le difficoltà non risiedono nei principi del Value Investing, ma nella sua complessa applicazione.

Contrariamente alla visione diffusa che lo descrive come una pratica accessibile a chiunque abbia voglia di approfondire l’analisi di un bilancio, il Value Investing richiede in realtà una lunga serie di competenze avanzate e un elevato grado di specializzazione, risultando difficile da implementare per la maggior parte degli investitori.

Indice

  1. La mancanza di un unico “linguaggio” contabile
  2. Standard contabili diversi, valutazioni diverse
  3. Flessibilità e scelte contabili anche all’interno dello stesso standard
  4. La necessità di riconciliare i bilanci per un’analisi coerente
  5. Un lavoro enorme che richiede risorse considerevoli
  6. Database, dati aggregati ed ETF: un’alternativa credibile per il Value Investing?

1. La mancanza di un unico “linguaggio” contabile

Uno dei principali ostacoli nell’analisi fondamentale è l’assenza di un unico standard contabile universalmente accettato per la redazione dei bilanci aziendali.

Le imprese compilano i propri bilanci – composti da numerosi documenti tra i quali il conto economico, lo stato patrimoniale, il rendiconto finanziario e la nota integrativa – seguendo norme differenti, a seconda del contesto normativo in cui operano.

I due standard contabili più diffusi a livello internazionale sono gli International Financial Reporting Standards (IFRS), emessi dall’International Accounting Standards Board (IASB) e adottati in oltre 140 giurisdizioni, e gli US Generally Accepted Accounting Principles (US GAAP), sviluppati dal Financial Accounting Standards Board (FASB) e utilizzati prevalentemente negli Stati Uniti.

Sebbene esistano anche altri sistemi contabili nazionali, IFRS e US GAAP rappresentano i riferimenti dominanti nel panorama finanziario globale e riflettono approcci concettualmente differenti alla rappresentazione delle operazioni e della situazione economico-finanziaria di un’impresa.

Di conseguenza, possono dar luogo a rappresentazioni contrastanti delle informazioni societarie.

Per stimare correttamente il valore intrinseco di un’azienda, l’analista fondamentale deve quindi conoscere e comprenderne a fondo le specificità.

La mancanza di uno standard contabile unico rappresenta quindi il primo ostacolo: d'altra parte, due persone che usano linguaggi diversi difficilmente riusciranno a capirsi davvero, a meno che una delle due non scelga di adattarsi al modo di comunicare dell'altra.

2. Standard contabili diversi, valutazioni diverse

Fernand Leger, Geometric standards (1913)

«The driving force of any profession includes not only the special knowledge, skills and standards that it demands, but the duty to serve responsibly, selflessly and wisely, and to establish an inherently ethical relationship between professionals and society».

John Bogle

La scelta dello standard contabile si ripercuote sui valori di bilancio.

Pur condividendo l’obiettivo di fornire informazioni utili agli investitori, IFRS e US GAAP presentano grosse differenze nelle regole di rilevazione e misurazione di molte voci di bilancio: una stessa operazione economica può generare risultati contabili differenti a seconda dello standard adottato.

In questo capitolo, elencheremo alcune divergenze tra i due standard e vedremo come l’utilizzo dell’uno o dell’altro influenza i bilanci aziendali.

Chi fosse più interessato alle conclusioni che non a un approfondimento prettamente economico-aziendale delle differenze tra standard, può passare direttamente ai capitoli 5 e 6, dove riassumiamo i principali risultati di questa lunga analisi.

Valutazione delle rimanenze di magazzino

Le rimanenze di magazzino (o scorte) rappresentano i beni destinati alla vendita o utilizzati nel processo produttivo e ancora presenti in azienda alla fine di un esercizio.

La loro valutazione ha un impatto diretto sia sul costo del venduto che sull’utile netto.

Gli US GAAP permettono di scegliere se valutare le rimanenze con il metodo LIFO (Last-In, First-Out), FIFO (First-In, First-Out) o al costo medio ponderato.

Gli IFRS, invece, vietano il LIFO. Questa differenza può avere un impatto sugli utili, specialmente in contesti inflazionistici.

In periodi di aumento dei prezzi, il LIFO genera un costo del venduto più elevato e rimanenze finali più basse, riducendo l’utile netto (e, di conseguenza, gli oneri fiscali).

Al contrario, il FIFO porta a un utile più alto e rimanenze più consistenti. 

Vediamo un esempio numerico: un’azienda acquista 100 unità di prodotto a 10 euro (1.000 in totale) e poi altre 100 unità a 12 euro (1.200 euro).

Se vende 50 unità di prodotto:

  • Con il FIFO, il costo del venduto sarà 50 × 10 = 500 euro. Le rimanenze finali saranno pari a 1.700 euro (2.200 – 500).
  • Con il LIFO, il costo del venduto sarà 50 × 12 = 600 euro. Le rimanenze finali saranno valutate 1.600 euro (2.200 – 600).

I 100 euro di differenza si ripercuotono direttamente sull’utile lordo.

In certi casi, gli IFRS permettono inoltre la reversibilità delle svalutazioni di magazzino (se il loro valore torna ad aumentare), mentre gli US GAAP vietano qualsiasi rivalutazione.

Anche questa differenza si riversa in alcune voci di bilancio e può influenzare la volatilità dei risultati aziendali nel tempo.

Costi di sviluppo

Se sono soddisfatte alcune specifiche condizioni (fattibilità tecnica, intenzione d’uso, ecc.), gli IFRS consentono di capitalizzare i costi di sviluppo, ossia imputarli all’attivo dello stato patrimoniale e ammortizzarli nel tempo.

Gli US GAAP, invece, impongono generalmente di imputare subito a costo nel conto economico le spese di ricerca e sviluppo.

La capitalizzazione causa, inizialmente, un utile più elevato e un incremento del valore degli attivi, ma genera costi futuri sotto forma di ammortamenti, che influiscono sulla redditività nel breve termine e sulla struttura patrimoniale.

Un’impresa che capitalizza i costi di sviluppo può quindi apparire più redditizia nel breve periodo e presentare un attivo più consistente, ma ciò non sempre riflette un valore economico superiore.

L’analista deve saper comprendere queste sfumature al fine di interpretare correttamente i dati contabili e confrontare in modo omogeneo aziende che seguono regole diverse.

Componenti non ricorrenti o straordinarie

Gli US GAAP richiedono di evidenziare separatamente dall’utile operativo le componenti di reddito o di costo non ricorrenti, aiutando così gli analisti a distinguere la performance derivante dall’attività ordinaria da quella legata a eventi eccezionali.

Gli IFRS, invece, non prevedono una distinzione formale: il risultato operativo include sia elementi ricorrenti che straordinari, rendendo come minimo necessaria un’attenta lettura delle note integrative per isolare la parte effettivamente riconducibile all’attività ordinaria.

Classificazione dei flussi di cassa

Una differenza molto importante si trova nel rendiconto finanziario.

Gli IFRS offrono maggiore flessibilità: ad esempio, gli interessi attivi possono essere classificati sia come flussi operativi che d’investimento; quelli passivi, sia come flussi operativi che di finanziamento.

Gli US GAAP impongono invece criteri più rigidi: gli interessi attivi e i dividendi incassati da partecipazoni in altre aziende sono flussi operativi, così come gli interessi passivi (anche se legati a finanziamenti). I dividendi distribuiti rientrano invece tra i flussi di finanziamento.

Questa discrezionalità può modificare il valore del flusso di cassa operativo.

Prendiamo ad esempio un’azienda che paga 100 milioni di euro di interessi:

  • Con gli US GAAP (classificazione operativa), il cashflow operativo si riduce di 100 milioni di euro.
  • Con gli IFRS (classificazione come finanziamento), il cashflow operativo resta invariato.

L’impatto finale sulla solidità finanziaria tra due aziende che utilizzano due standand diversi cambia, nonostante l’uscita di cassa sia identica.

Valutazione delle attività a lungo termine

Gli IFRS permettono di scegliere fra il modello del costo storico e quello della rivalutazione, basato sul fair value, per immobili, impianti e macchinari.

Gli US GAAP, invece, ammettono esclusivamente il metodo del costo storico.

Ma come funzionano questi due modelli?

Nel modello del costo storico, i beni immobili sono iscritti in bilancio al loro costo di acquisto, al netto di ammortamenti ed eventuali svalutazioni.

Il modello della rivalutazione, invece, consente di aggiornare periodicamente il valore degli immobili, impianti e macchinari al fair value, cioè al valore di mercato corrente.

Un’azienda che adotta gli IFRS può adeguare periodicamente il valore di questi asset a quello di mercato, imputando l’incremento direttamente al patrimonio netto: in questo modo, migliora la qualità dei principali indici di solvibilità e riduce il rapporto debito/attività.

Gli US GAAP, invece, impongono di mantenere il valore di questi attivi in bilancio al costo storico (al netto degli ammortamenti): una valutazione più prudente ma meno allineata al valore corrente.

Potrebbero sembrare piccole differenze ma, a parità di tutto il resto, i bilanci redatti secondo gli standard IFRS e US GAAP possono giungere a risultati contabili molto diversi tra loro.

Ecco perché il confronto tra società che applicano standard differenti richiede sempre una conoscenza approfondita delle rispettive regole contabili.

3. Flessibilità e scelte contabili anche all’interno dello stesso standard

La difficoltà nel confrontare i bilanci non si limita all'esistenza di regole contabili diverse, come IFRS e US GAAP.

Anche all’interno di uno stesso standard, gli amministratori dispongono di una certa flessibilità e devono fare ricorso a stime e giudizi con un certo grado di discrezionalità.

Ciò significa che, anche in questo caso, due aziende che applicano lo stesso standard possono comunque riportare valori diversi per le medesime voci, complicando l’interpretazione della reale situazione economico-finanziaria e creando spazi per la cosiddetta “manipolazione degli utili” (earnings management).

Vediamo alcuni esempi di questa flessibilità nelle scelte contabili.

Metodi di ammortamento e stime

Le imprese hanno una certa libertà nella scelta del metodo di ammortamento (lineare, accelerato, a unità di prodotto e così via), nella stima della vita utile dei beni immobili e nei loro valori residui.

Attraverso queste decisioni, è possibile influenzare l’ammortamento annuale e, di conseguenza, l’utile netto.

Un’azienda potrebbe optare per una vita utile più lunga o un valore residuo più elevato per ridurre la quota di ammortamento, migliorando temporaneamente la redditività.

Prendiamo come esempio un bene del valore di 100.000 euro, senza valore residuo, con vita utile di 5 anni: l’ammortamento lineare sarà pari a 20.000 euro all’anno. Se si applica il metodo accelerato (ad esempio, con una rata doppia di quello lineare), il costo del primo anno sarà 40.000 euro ed abbatterà l’utile in maniera maggiore.

Sebbene lecite, queste scelte offrono ai manager un certo margine per orientare i risultati di bilancio, ad esempio avvicinandoli a obiettivi di utile prefissato o superando le aspettative del mercato.

Stime contabili soggettive

Molte voci di bilancio si basano su stime discrezionali, come nel caso dei crediti inesigibili, delle garanzie o dei fondi rischi e oneri (cause legali, ristrutturazioni, ecc.). Cambiando le ipotesi di partenza, cambiano anche i risultati.

Ad esempio, ridurre la percentuale stimata di crediti non recuperabili comporta un minor accantonamento, con una conseguente riduzione dei costi e un utile netto più elevato.

Ma se tale scelta non è supportata da un effettivo miglioramento nella qualità del credito, può mascherare una situazione di rischio e far apparire l’azienda più solida di quanto non sia realmente.

Le stime contabili non riflettono soltanto numeri, ma anche giudizi gestionali, che possono variare tantissimo da un’azienda all’altra.

Per questo motivo, l’analista deve esaminare queste stime con attenzione e spirito critico, soprattutto quando confronta aziende diverse o osserva variazioni nel tempo.

Non si tratta solo di interpretare i numeri, ma di comprendere le scelte e le logiche di chi, quei numeri, li ha generati.

Classificazione dei flussi di cassa

Come accennato in precedenza, gli IFRS offrono una maggiore flessibilità nella classificazione di interessi e dividendi all’interno del rendiconto finanziario, consentendo di collocarli tra i flussi operativi, di investimento o di finanziamento, a seconda del contesto e delle scelte dell’azienda.

Oltre a queste differenze normative, le aziende possono adottare anche strategie operative per migliorare temporaneamente il flusso di cassa.

Un esempio comune è il cosiddetto stretching dei tempi di pagamento ai fornitori: posticipare i pagamenti consente di aumentare i debiti commerciali e, di conseguenza, di mostrare un flusso di cassa operativo più solido.

Apparentemente può sembrare una strategia efficace, in grado di migliorare il flusso di cassa operativo. In realtà, può anche indicare tensioni nella gestione della liquidità, essendo una manovra mirata a restituire un’immagine più solida di quella effettiva.

Pur non trattandosi di una manipolazione contabile in senso stretto, rischia comunque di offrire una lettura distorta della situazione finanziaria, specialmente alla luce di un’analisi poco attenta.

Considerazioni finali

Le scelte interpretative tra standard contabili diversi e all’interno di uno stesso standard analizzate finora sono solo una parte delle numerose decisioni che entrano nella redazione di un bilancio d’esercizio.

Molte altre riguardano la gestione delle imposte, dell’avviamento, delle immobilizzazioni immateriali e di numerose altre poste di bilancio.

Tutta questa discrezionalità, seppure in parte necessaria per rappresentare fedelmente situazioni complesse, può anche essere utilizzata per influenzare i risultati di esercizio.

Come già accennato, si tratta del fenomeno noto come manipolazione degli utili (earnings management), che può assumere forme più o meno aggressive:

  • Le scelte aggressive puntano a massimizzare i profitti nel breve periodo.
  • Le scelte conservative, invece, mirano a ridurre o differire i profitti nel tempo, spesso per creare margini di manovra negli esercizi successivi.

Alcune scelte contabili, poi, possono riflettere strategie ben precise. Nel gergo anglosassone, sono state coniate due espressioni molto eloquenti al riguardo:

  • Le big bath charges sono costi straordinari concentrati intenzionalmente in un solo esercizio, spesso in corrispondenza di un cambio di management, per ridurre drasticamente l’utile (o generare una perdita) e ripartire da una base più favorevole nei periodi successivi.
  • Le cookie jar reserves (riserve occulte) sono accantonamenti eccessivi effettuati negli anni positivi, che vengono poi utilizzati per compensare andamenti negativi futuri.

Le strategie conservative possono sembrare prudenziali e volute per conferire una maggiore solidità all’azienda ma, al pari di quelle aggressive, finiscono per compromettere la trasparenza dei dati contabili.

In entrambi i casi, l’analisi ne risulta distorta, e andrebbero perciò evitate: si tratta di pratiche che alterano la rappresentazione della performance aziendale e rendono più difficile valutare la reale capacità reddituale dell’impresa.

Di conseguenza, complicano anche la stima del valore intrinseco, minando uno dei presupposti del Value Investing.

4. La necessità di riconciliare i bilanci per un’analisi coerente

Pinturicchio, Riconciliazione di Coriolano (1509)

«La coerenza è il fondamento della virtù».

Francis Bacon

Di fronte alla varietà di standard contabili e alla flessibilità applicativa che essi concedono, un’analista fondamentale non può limitarsi a confrontare i bilanci pubblicati da diverse aziende traendo conclusioni immediate.

Ciò assume particolare rilevanza nel caso del Value Investing, una strategia che si fonda anche sul confronto tra varie società di uno stesso settore al fine di individuare quelle più sottovalutate.

Per condurre un’analisi comparativa solida, è indispensabile procedere con un lavoro di riconciliazione dei bilanci.

Si devono individuare e quantificare le differenze nelle politiche di bilancio e nelle stime contabili adottate dalle diverse aziende e riclassificare i bilanci secondo un insieme uniforme di regole, in modo da renderli pienamente confrontabili.

Ad esempio, nel caso in cui si vogliano confrontare aziende statunitensi che utilizzano il metodo LIFO (consentito dagli US GAAP) con aziende che seguono gli IFRS, che richiedono invece l’utilizzo del FIFO, sarà necessario convertire i dati da LIFO a FIFO. Questo processo comporta:

  • L’aggiunta della "Riserva LIFO” al valore delle rimanenze riportato con il metodo LIFO. Tale riserva rappresenta la differenza tra il valore delle scorte calcolato con il metodo FIFO e quello con il metodo LIFO.
  • La sottrazione dell’aumento della "Riserva LIFO" dal costo del venduto per ottenere il corrispondente valore secondo il FIFO.

Queste informazioni sono spesso riportate nelle note integrative dei bilanci, con formule del tipo:

“Se avessimo adottato il metodo FIFO, le rimanenze sarebbero state superiori di X milioni e il costo del venduto inferiore di Y milioni”.

La riconciliazione tra LIFO e FIFO è solo un esempio delle numerosissime correzioni che dovrebbero essere effettuate per realizzare questa riconciliazione contabile, molte delle quali sono state elencate nei due capitoli precedenti.

Senza queste correzioni, ogni confronto rischia di basarsi su dati non omogenei e di portare a conclusioni fuorvianti.

5. Un lavoro enorme che richiede risorse considerevoli

Mario Comensoli, Il lavoro (1951)

«Chi non ha denaro, mezzi e pace, manca di tre buoni amici».

William Shakespeare

Il processo di normalizzazione dei bilanci è tutt’altro che semplice.

Richiede l’identificazione di tutte le aree in cui le pratiche contabili possono differire all’interno di un settore specifico, la comprensione approfondita delle politiche adottate da ciascuna azienda e il calcolo degli aggiustamenti necessari per rendere i dati effettivamente comparabili.

Il bilancio di esercizio di una grande azienda non è un documento sintetico: si tratta, spesso, di centinaia di pagine ricche di numeri, tabelle, classificazioni e testi.

A titolo di esempio, è possibile trovare qui l’ultimo bilancio di esercizio del gruppo Volkswagen.

Le note integrative, in particolare, rappresentano una fonte imprescindibile di informazioni: descrivono in dettaglio le politiche contabili, le modifiche nelle stime e altri elementi rilevanti che possono avere un impatto importante sui risultati economici riportati.

Un’analisi superficiale di queste note rischia di sorvolare su decisioni manageriali che possono alterare la rappresentazione della performance aziendale: ad esempio, un cambiamento nella stima della vita utile di un bene immobile – da 10 a 15 anni – potrebbe sembrare insignificante ma, se applicato a un attivo da miliardi di euro, causa una drastica riduzione degli ammortamenti e un incremento dell’utile netto.

Quando questo livello di analisi viene esteso a un intero settore, per confrontare le aziende in modo coerente, il lavoro di raccolta, organizzazione e riclassificazione dei dati diventa enorme.

Si tratta di un’attività che va ben oltre le possibilità del singolo investitore, per quanto competente. Richiede team dedicati di analisti qualificati, con competenze avanzate in contabilità, finanza e certificazioni professionali (come il CFA), impegnati a tempo pieno in questo tipo di analisi.

Tali risorse si trovano principalmente all’interno di grandi fondi comuni di investimento o hedge fund, che possono permettersi di sostenere i costi elevati di un lavoro così approfondito grazie alle commissioni di gestione pagate dai clienti.

Oltre all’analisi quantitativa, i professionisti del settore considerano anche aspetti qualitativi: valutano la qualità del management, la struttura organizzativa, le strategie di crescita e, laddove sia possibile, conducono visite nelle aziende per raccogliere informazioni utili a integrare l’analisi.

Ed è qui che le cose si fanno davvero interessanti.

Perché visitare le aziende? Non basta forse aver analizzato in profondità, e magari riscritto da cima a fondo, il bilancio di esercizio?

No, non basta.

Le visite, che comportano costi e richiedono una rete di contatti inaccessibile al singolo investitore, servono a comprendere meglio il clima interno, la cultura aziendale e, nei limiti di quanto il management può condividere, i piani strategici futuri.

Perché, alla fine, è il futuro che conta, non il passato.

Tutta l’analisi svolta fin qui si basa su dati storici: un bilancio, anche il più recente, è pur sempre una fotografia di ciò che è già successo.

Ma i mercati guardano avanti, non indietro. Il prezzo di un’azione riflette (o almeno dovrebbe riflettere) il valore attuale degli utili futuri attesi.

E se questi utili futuri sono incerti, a cosa serve tutto il lavoro fatto finora?

Serve proprio a costruire una base solida per stimare il futuro a partire da ciò che sappiamo del presente e del passato.

Un’azienda può apparire sottovalutata oggi, ma se le sue prospettive future non sono convincenti, quel prezzo apparentemente basso potrebbe non essere un’opportunità, bensì una valutazione corretta, o persino eccessiva.

La stima del valore di un’azienda nasce dunque dalla fusione tra l’analisi dei dati passati e le proiezioni sul futuro.

Ed è proprio questa seconda parte, la più incerta e complessa.

Del resto, se già il lavoro sull’analisi storica richiede competenze, tempo e risorse, stimare in modo credibile gli utili futuri è un’impresa ancora più ardua.

Qui, i margini di errore aumentano esponenzialmente: entrano in gioco variabili macroeconomiche, cambiamenti normativi, innovazioni di settore, decisioni strategiche del management, mutamenti nella concorrenza e molto altro.

Prevedere tutto questo con un grado di attendibilità ragionevole è praticamente impossibile.

Ecco perché il Value Investing, pur fondandosi su principi semplici, razionali e affascinanti, resta così difficile da applicare con successo.

E lo stesso vale per qualsiasi altra strategia che si basi sulla necessità di prevedere il futuro: nonostante tutto il rigore, la preparazione e le risorse impiegate, la probabilità di riuscirci in modo sistematico nel tempo è estremamente bassa.

6. Database, dati aggregati ed ETF: un’alternativa credibile per il Value Investing?

Dmytro Kavsan, Alternative solution (1988)

Esistono numerosi database finanziari che aggregano i dati di bilancio di migliaia di aziende a livello globale, ma si limitano per lo più a riportare i numeri “così come sono”, ossia secondo gli standard contabili applicati da ciascuna azienda.

Sebbene forniscano metriche comuni utili per un’analisi di base, è altamente improbabile che forniscano il livello di dettaglio necessario per effettuare le complesse rielaborazioni descritte in precedenza.

Le informazioni davvero determinanti per comprendere il significato economico dei dati, come le politiche contabili adottate, le stime effettuate, le operazioni straordinarie o le scelte di classificazione, si trovano esclusivamente nelle note integrative e nella relazione sulla gestione redatta dagli amministratori.

Solo analisti esperti sono in grado di leggere, interpretare e contestualizzare questi elementi, effettuando gli aggiustamenti non automatizzabili necessari per una valutazione più affidabile e un confronto coerente tra aziende diverse.

I database, perciò, non sostituiscono la grande mole di lavoro necessaria per provare a individuare le società sotto o sopravvalutate dal mercato.

Un ulteriore rischio, spesso trascurato da chi si affida a modelli quantitativi e backtest, è rappresentato dal look-ahead bias.

Ad esempio, analizzare il rapporto P/E relativo all’anno X e simulare un investimento effettuato il 1° gennaio dell’anno X+1 è un errore clamoroso: il bilancio dell’anno X, in quella data, non era ancora disponibile.

I bilanci vengono infatti pubblicati solitamente tra marzo e aprile, mesi dopo la chiusura dell’esercizio, e qualsiasi simulazione che ignori questo ritardo risulta inaffidabile e fuorviante, spesso portando a una sopravvalutazione delle performance storiche della strategia.

A complicare il quadro, bisogna considerare che in alcuni casi i bilanci possono essere pubblicati con ritardi anche maggiori per ragioni tecniche, legali o operative.

In casi estremi, inoltre, delle rettifiche contabili possono essere comunicate mesi o addirittura anni dopo la prima pubblicazione, alterando ex post i dati di riferimento.

Un backtest rigoroso dovrebbe quindi tenere conto di tutti questi fattori, per ogni società e per ogni periodo analizzato. Ma, di nuovo, un lavoro di questo tipo è straordinariamente complesso e dispendioso.

Tra l’altro, nemmeno i gestori professionisti hanno vita facile. Come è noto, solo una minoranza di fondi attivi riesce a battere il proprio benchmark nel lungo periodo, e i fondi basati sul Value Investing non fanno eccezione.

La concorrenza informativa è altissima, e ogni vantaggio competitivo tende a ridursi man mano che più operatori utilizzano strumenti e approcci simili.

Anche se l’analisi fondamentale è teoricamente alla portata di tutti, la sua applicazione rigorosa è, se proprio vogliamo crederlo, riservata soltanto a professionisti altamente qualificati.

Che cosa possiamo dire, invece, degli ETF? Non offrono un modo semplice ed economico per investire in aziende “value”? Non si ispirano, almeno in parte, agli stessi principi del Value Investing?

In effetti, alcuni strumenti passivi come gli ETF value nascono proprio con l’obiettivo di individuare società sottovalutate secondo logiche simili.

Il loro funzionamento, però, si basa su un approccio alquanto diverso rispetto all’analisi fondamentale tradizionale.

Gli ETF value replicano indici costruiti con criteri quantitativi, come il rapporto prezzo/valore contabile (P/B), prezzo/utili (P/E), prezzo/ricavi (P/S), EV/EBITDA e così via: utilizzano dati presi direttamente dai bilanci ufficiali, raccolti e aggregati in database professionali, spesso molto costosi.

Le informazioni contenute in questi database, però, non sono il risultato di alcuna riconciliazione contabile, né includono l’interpretazione delle note integrative o delle scelte gestionali.

Si tratta di un approccio sistematico, adatto a classificare in continuazione grandi quantità di titoli in modo coerente, ma molto distante dal lavoro analitico e approfondito che contraddistingue il Value Investing nella sua forma più rigorosa.

Alla luce di tutto quanto è stato discusso finora, quanto possiamo affidarci ai multipli finanziari calcolati su dati grezzi non rielaborati?

Qual è il valore aggiunto di questo metodo, più approssimativo sebbene più economico?

In tutta franchezza, crediamo che sia molto limitato.

Alla fine, riuscire a battere il mercato rimane una chimera.

Il Value Investing continua ad affascinare gli investitori, ma potrebbe non essere più in grado di generare rendimenti superiori nel lungo termine.

Forse ha funzionato in passato, ma oggi le condizioni potrebbero essere cambiate.

È giusto trattare i prezzi di mercato con un certo scetticismo, in quanto potrebbero non rispecchiare il valore intrinseco di alcune società.

Ancora meglio, però, è trattarli con rispetto: potrebbero essere molto più vicini al valore intrinseco di quanto le nostre analisi ci suggeriscono.

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