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Perché gli investitori sono irrazionali?

Perché gli investitori sono irrazionali?


06Mag2023

Information
Andrea Gonzali Finanza comportamentale 3180 hits
Prima pubblicazione: 16 Maggio 2021

«We still by no means think decisively enough about the essence of action».

Martin Heidegger

Una delle principali lamentele dei consulenti finanziari è che i loro clienti non rispettano il piano di investimento stabilito di comune accordo.

Spesso, un investimento finanziario ha un orizzonte temporale di medio/lungo periodo: 5, 10, 15, 20 anni e anche di più. Si tratta di una buona parte della vita dell'investitore, durante la quale accadono molte cose.

Nei mercati si alternano periodi di crisi e fasi di euforia finanziaria; nella vita delle persone, non sono rari momenti di difficoltà economica, spese non previste per bisogni improvvisi o per soddisfare voglie passeggere.

Le crisi finanziarie sono temute dai consulenti non soltanto perché fanno diminuire le masse gestite: il principale timore è quello di assistere impotenti ai disinvestimenti dei loro clienti, motivati quasi esclusivamente dall’angoscia o dalla paura della situazione in corso.

Eppure, quando sono stati definiti, gli accordi erano chiari. Nei numerosi incontri in cui consulente e investitore avevano ripetutamente discusso della propensione al rischio e dell’orizzonte temporale, l'investitore sembrava avere le idee chiare e aveva dimostrato una grande convinzione nella pianificazione finanziaria effettuata.

Ma è veramente soltanto colpa dei clienti? Forse no: probabilmente per loro era davvero tutto chiaro quando, in ufficio o al telefono, il consulente aveva sottolineato per l’ennesima volta l’importanza di quelle variabili.

E allora perché, nonostante noi si sappia bene quello che c’è da fare – ovvero si abbiano le conoscenze teoriche che ci indicano quale sia il comportamento giusto da tenere di fronte a un’alternativa – la nostra azione va, in certi casi, nella direzione opposta?

Perché ciò che comanda la nostra azione non è la teoria logica e razionale di cui siamo a conoscenza: per usare un termine psicologico, le nostre azioni sono governate da altre pulsioni.

Questo, nell’ambio della finanza personale e della consulenza finanziaria, si traduce spesso in comportamenti irrazionali da parte dell’investitore, che sono di solito la conseguenza di una serie di eventi simile a questa:

  • All’investitore si consiglia di investire, ad esempio, in un PAC ventennale, preparandosi per una serie di fluttuazioni che sono endemiche del mercato.
  • Di fronte a quelle oscillazioni, si raccomanda all’investitore di non spaventarsi e di mantenere l’investimento, perché gli alti e bassi sono parte dell’andamento prevedibile di quell’investimento.
  • L’investitore conferma di aver capito tutto e di tollerare le fluttuazioni del mercato.
  • Il mercato crolla o cala pesantemente, e l’investitore disinveste e/o fa una serie di azioni che non sono in linea con quello che era stato stabilito né, tantomeno, con la teoria a sostegno del comportamento suggerito.

La domanda che ci dobbiamo porre, quindi, è la seguente: come mai noi facciamo quello che facciamo e che ruolo gioca la teoria – quindi la conoscenza – nell’influenzare i comportamenti? (non solo in campo finanziario, ma in qualsiasi ambito dell’esistenza).

In particolare, come mai, spesso, la conoscenza non è abbastanza?

Ci sono un paio di fraintendimenti di cui siamo un po’ tutti vittima sul funzionamento del rapporto tra mente e azione, quando si tratta dell’essere umano. Da tanti secoli ormai, viviamo in una cultura in cui noi siamo proni a credere due cose:

  1. La mia mente fa quello che io voglio che lei faccia. L’io controlla il funzionamento della mente.
  2. Le mie azioni sono legate a qualcosa che accade in me, internamente: sono cioè causate da un processo interno, che avviene dentro di me, nel quale entra in gioco la conoscenza. In altre parole, agisco in base a quello che sento, credo, voglio o so.
    L’ultimo caso è quello che ci interessa di più: il sapere lo intendiamo sempre come se io fossi depositario, deposito e contenitore di una certa quantità di conoscenza. Più conoscenza ho, meglio agisco. Da questo punto di vista, siamo tutti figli della filosofia cartesiana, del paradigma filosofico del cogito ergo sum, che assume il soggetto, l’ego cogito, l’io che pensa, come fonte primaria del rapporto con il mondo. Un io staccato dal mondo che, in base a quello che avviene al suo interno, agisce poi in un mondo esterno a lui.

Perché sono due fraintendimenti? Partiamo dal primo: la mente fa quello che io voglio che lei faccia.

La mente fa quello che io voglio che lei faccia

Purtroppo, la mia mente non fa quello che voglio io. Noi abbiamo un cervello, che è l’organo che sappiamo adibito al funzionamento mentale, che si trova all’interno di una scatola cranica che fisicamente ci appartiene. Questa appartenenza fisica ci fa fare il seguente passaggio automatico: se il cervello è mio, e il cervello è l’organo che crea il pensiero, allora quello che penso è mio.

Già Freud, però, diceva che “l’io non è padrone a casa sua”. Cosa vuol dire, in un senso ancora più ampio, che la mia mente non sottostà alla mia volontà? Principalmente, vuol dire che la mente ha una vita sua che io mi ritrovo ad abitare.

La mente è un processo continuo di formulazione di significati che non si ferma mai e che nasce cronologicamente prima della presenza dell’io: i bambini hanno una vita mentale prima che abbiano una personalità ben definita, prima che ci sia un io che dice “io penso”.

La vita mentale inizia prima della vita della coscienza di sé, e questo è facilmente intuibile guardando un bambino di qualche mese: il bambino non ha piena coscienza di sé, ma non possiamo dire che il bambino non abbia un’attività mentale.

L’io, la coscienza di sé, è ciò che ci fa relazionare al mondo e alle nostre stesse esperienze interne come protagonista di quelle stesse esperienze. È un processo mentale che è un sottoinsieme di un processo più grande: io arrivo nella mia mente dopo un po’ che la mente già c’è; l’io è presente soltanto in una parte dell’attività mentale che è l’attività mentale cosciente.

Se dovessimo raffigurarla, avremmo il classico disegnino dell’iceberg dove l’attività cosciente della mente è la punta dell’iceberg, situata sopra all’attività subcosciente o preconscia, che è l’immenso blocco di ghiaccio al di sotto della superficie del mare.

La mia mente ha un’attività tutta sua che sottostà, in primis, ai dettami di natura, e soltanto dopo ai miei.

Schopenhauer dice ne Il mondo come volontà e rappresentazione che io, prima di essere un individuo, prima di poter dire “io”, sono il funzionario di una specie: un po’ come le api, che hanno una struttura di coscienza collettiva molto più forte di quella individuale.

Prima di distinguermi da tutti gli altri, sono uguale a tutti gli altri per un certo numero di parametri, di criteri di funzionamento che la natura ha deciso per me: uno di questi, ad esempio, è che la mia mente non può formulare contenuti se non pescandoli dal passato. 

Io mi sveglio domattina e non ho deciso io che svegliandomi domattina ripesco e mi ritornano alla coscienza tutti quei ricordi impliciti ed espliciti che hanno costituito i 48 anni della mia vita: l’ha deciso la natura – e meno male che ha deciso così – altrimenti mi sveglierei domattina e dovrei ricominciare la mia esistenza da zero.

Nello svegliarmi ogni mattina, in realtà, è la mia coscienza che si sveglia e io ci sono dentro.

Un’altra cosa che la natura ha deciso per me è che nei momenti in cui nel mio passato ho vissuto delle esperienze emotivamente difficili (momenti di paura, tristezza, lutto o comunque emotivamente duri) io, inconsapevolmente, ho preso delle decisioni sul futuro, su di me e sulla vita, che poi sarebbero diventati degli automatismi, dei meccanismi di difesa.

Quelle decisioni lì la mia mente me le proietterà, senza che io me ne accorga, per tutti gli anni successivi, ogni qual volta che mi ritroverò in una situazione che percepisco esser simile a quella che ho vissuto nel passato.

Ad esempio, per rientrare nel campo della finanza, come mai nel momento in cui un mercato scende, l’investitore medio, la persona normale che magari ha investito in azioni, titoli o in un fondo comune di investimento il cui valore sta scendendo, tende a fuggire, scappare, disinvestire, cambiare la strategia lungamente pianificata, quando invece razionalmente il suo consulente finanziario continua a dirgli “No, aspetta: nel lungo termine probabilmente recupererai perché, statisticamente, negli ultimi 50 anni il 98,7% delle volte il mercato X ha recuperato l’x% nei 3 anni successivi”?

Perché l’investitore medio non lo ascolta e disinveste? Perché nel momento in cui sente di essere di fronte a una situazione di perdita, quindi a una minaccia di un futuro che non corrisponde all’aspettativa che si era fatto, quella cioè di avere un rendimento crescente in funzione del passare del tempo (una situazione di angoscia per usare un termine della psicologia esistenziale), scatta automaticamente quel meccanismo di difesa di cui la natura lo ha equipaggiato, che gli dice riparati, fuggi, rispondi: freeze, fight, flight.

Questi esempi servono a farci capire che noi attribuiamo un'eccessiva capacità di controllo a quella parte dei nostri meccanismi mentali che risiedono nella corteccia prefrontale, che governa la razionalità.

Quando mi trovo in una situazione di paura, però, la mia mente agisce in modi supportati sì dal mio cervello, ma che non corrispondono più a quelli della razionalità: in quei casi lì, la conoscenza teorica non mi aiuta. In un momento di paura il sistema limbico, che è il sistema all’interno del cervello adibito al controllo delle emozioni, ordina alla corteccia prefrontale di farsi da parte, perché quella situazione vuole gestirla lui.

In quei momenti, si prendono quelle decisioni che nel linguaggio comune definiamo impulsive.

Non c’è modo di controllare o frenare questo meccanismo se una persona non ne prende consapevolezza indiretta.

Cosa vuol dire prenderne consapevolezza indiretta? Vuol dire che è difficile intervenire in quel processo lì con ragionamenti del tipo “lascia che ti spieghi perché, razionalmente, statisticamente, il mercato tornerà a salire…”: in quei momenti, chi si ha di fronte non agisce secondo i criteri razionali, ma in risposta a una minaccia, una paura.

Se quella persona non prende in considerazione che quello che sta decidendo al posto suo è una paura, si possono avere tutti gli argomenti teorici del mondo, tutte le conoscenze del mondo, ma la conversazione non andrà quasi da nessuna parte.

Prenderne consapevolezza vuol dire riuscire a vedere il meccanismo mentale all’opera. Chiaramente, per vederlo all’opera, lo devo un pochino intuire, lo devo già conoscere almeno un po’.

Ma, allora, il consulente finanziario deve fare lo psicologo? No, ma un consulente finanziario che non conosce questi meccanismi è un consulente finanziario che si troverà sempre a disagio di fronte ai comportamenti irrazionali dell’investitore medio. E saranno tanti perché l’investitore medio, ci insegna Kahneman, non è razionale.

Quando si ha a che fare con le persone, quando cioè ci si trova nel rapporto stretto di consulenza, questi meccanismi sono più utili da conoscere rispetto a tanti tecnicismi finanziari o a tante tecniche di persuasione, molto alla moda negli ultimi anni.

Questa cosa, il mondo della consulenza finanziaria, ancora l’ha capita poco.

La nostra mente non sempre sottostà alla nostra volontà. Tutto il pregio delle ricerche fatte da Daniel Kahneman e Amos Tversky, molte delle quali spiegate dal primo nel libro Thinking fast and slow, è nel dimostrare che l’uomo non è razionale.

Che cosa vuol dire, dunque, che l’uomo non è razionale?

Vuol dire che il processo di razionalità – che ha come protagonista l’ “io penso” – è soltanto uno dei processi che la mente umana svolge. Ce ne sono però altri, spesso molto più potenti: quelli che Freud all’inizio chiama “pulsioni”. Sono dei veri e propri processi mentali, che non vengono gestiti dalla coscienza dell’io ma da altre dinamiche mentali.

Questo è il primo fraintendimento. Tanta parte della scienza economica e della scienza in generale è basata sull’idea che tutta la mia vita si basi su un rapporto tra me e il mondo, in cui io sono un essere razionale che osserva il mondo e i suoi fenomeni e, da essere razionale (nel senso di “la cui mente sottostà al mio controllo”), agisco e mi sbizzarrisco in un mondo di eventi che riesco a capire e controllare.

Purtroppo, non è così.


Potete trovare la seconda parte dell'articolo al seguente link:

Perché gli investitori sono irrazionali? 2. Agisco in base a quello che so


Da un'intervista di Andrea Gonzali a Lorenzo Gallinari.

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