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Damodaran e i limiti del value investing nell’era dei mercati efficienti

Aswath Damodaran e il tramonto del value investing: più un hobby che una strategia per battere il mercato


21Dic2025

Information
Andrea Gonzali Strategie 25 hits
Prima pubblicazione: 21 Dicembre 2025

«Einstein was right about relativity, but even he would have had a difficult time applying relative valuation in today’s stock markets».

Aswath Damodaran

Questo articolo fa parte del Percorso avanzato, pensato per investitori già esperti e professionisti che vogliono approfondire gli sviluppi teorici e le applicazioni pratiche della finanza moderna. In fondo alla pagina, troverai il link al prossimo articolo del percorso.

Quando una delle voci più autorevoli del value investing contemporaneo arriva ad ammettere che battere il mercato non è più un obiettivo realistico, vale la pena fermarsi a riflettere.

In un'intervista rilasciata nel 2024 al canale YouTube Excess Return, Aswath Damodaran, considerato da molti uno dei massimi esperti al mondo di valutazione d'azienda, riconosce apertamente che l’investimento attivo, incluso il value investing tradizionale, difficilmente può offrire rendimenti sistematicamente superiori agli indici di mercato.

Se una posizione simile viene sostenuta da chi ha dedicato una vita allo studio dei fondamentali societari, il messaggio non può essere liquidato come un'opinione uguale a tante altre.

La questione riguarda il ridimensionamento della promessa secondo la quale l’analisi fondamentale, se applicata con rigore, consentirebbe di individuare titoli sotto o sopravvalutati e generare guadagni anche ben superiori di quelli del mercato nel lungo periodo.

Ma se anche i suoi più autorevoli interpreti ammettono che questa ambizione è diventata, nella migliore delle ipotesi, un esercizio intellettuale e non una strategia replicabile, è legittimo chiedersi se il value investing possa ancora essere considerato uno strumento efficace per generare alpha.

Il punto è, quanto meno, riconoscerne i limiti in un contesto dominato – che piaccia o meno – da mercati sempre più efficienti, tecnologia e concorrenza informativa estrema.

Il fatto che Damodaran abbia adottato una posizione critica non implica che il value investing sia destinato a scomparire: nello stesso tempo, chiunque voglia considerarsi un osservatore obiettivo non può ignorare il suo monito, che approfondiremo in questo articolo.

Indice

  1. La critica al value investing tradizionale: rigidità, ritualità e superiorità morale
  2. Il riconoscimento dell’efficienza del mercato e il fallimento dei fattori
  3. Il cambio di mentalità: adattabilità e bounded storytelling. Il value investing come hobby
  4. Punti di forza e limiti dell'approccio di Damodaran

1. La critica al value investing tradizionale: rigidità, ritualità e superiorità morale

Il professor Aswath Damodaran, spesso definito il “Dean of Valuation” della New York University Stern School of Business (NYU), è conosciuto a livello internazionale per il suo contributo alla valutazione aziendale e per la disponibilità con cui condivide analisi e riflessioni con la comunità degli investitori.

Accanto a questa riconosciuta competenza tecnica, Damodaran ha espresso posizioni marcatamente scettiche sulla possibilità che l’investimento attivo – inteso come selezione di singoli titoli con l’obiettivo di ottenere rendimenti superiori alla media – riesca a battere il mercato in modo sistematico.

Le sue riserve riguardano in particolare il value investing tradizionale, che secondo lui fatica a mantenere la propria efficacia nell’attuale contesto economico.

Alla base di questa visione vi è la consapevolezza della difficoltà di generare excess returns, ossia di produrre alpha nel lungo termine.

Vediamo un esempio numerico: se il mercato azionario cresce in media dell’8% all'anno, ottenere un excess return significa puntare con continuità al 10% o al 12%.

Ma Damodaran osserva che la ricerca di questo extra 2-4%, che può anche essere stimolante e intellettualmente gratificante, non può più essere considerata una strategia affidabile per sovraperformare il mercato nel lungo periodo.

Damodaran esprime un marcato disagio nei confronti di quello che definisce il value investing “di vecchio stampo”, che descrive attraverso tre caratteristiche: rigidità, ritualità e superiorità morale.

Ritualità e rigidità. Il value investing tradizionale si è progressivamente trasformato in un insieme di dogmi, fatto di regole immutabili e comportamenti quasi obbligati.

Ne sono esempi – sostiene Damodaran – l’aspettativa di partecipare ai “pellegrinaggi” annuali a Omaha, in occasione dell’assemblea della Berkshire Hathaway di Warren Buffett, o l’obbligo implicito di aver letto Security Analysis di Benjamin Graham e David Dodd, un testo che Damodaran definisce estremamente noioso e che, a suo avviso, molti dichiarano di conoscere senza magari neppure averlo sfogliato.

Questa aderenza a regole assolute può portare a decisioni dogmatiche. Facciamo un esempio: una regola classica del value investing potrebbe imporre di non comprare mai un titolo con un rapporto P/E (Prezzo/Utile) superiore a 10.

Ora, immaginate un'azienda eccellente che viene scambiata a un P/E di 12. Un investitore rigido la scarterebbe automaticamente, perdendo magari un'opportunità di crescita enorme, solo perché la sua regola ferrea dice di fermarsi a 10.

Superiorità morale (righteousness). L’aspetto che Damodaran trova più irritante è l’atteggiamento di superiorità morale adottato da alcuni investitori value, convinti di appartenere a una cerchia di “eletti” e inclini a guardare con disprezzo il resto degli investitori, giudicati superficiali.

A suo giudizio, questa presunzione – classico esempio di overconfidence, aggiungiamo noi – rappresenta uno dei rischi maggiori per chi investe, perché trasforma una filosofia di investimento in una sorta di religione.

Pur muovendo queste critiche, Damodaran riconosce che investitori come Warren Buffett mostrano in realtà una flessibilità ben maggiore rispetto a quella esibita da molti dei loro sedicenti seguaci.

2. Il riconoscimento dell’efficienza del mercato e il fallimento dei fattori

Lo scetticismo di Damodaran nei confronti del value investing nasce da una visione dei mercati sostanzialmente efficienti.

I mercati possono commettere errori, anche clamorosi, ma per un investitore attivo è estremamente difficile sfruttarli in modo sistematico e ottenere risultati migliori rispetto a una semplice strategia passiva, come l’acquisto di un fondo indice che replica l’andamento complessivo del mercato.

I dati sul fallimento della gestione attiva sono, nelle parole di Damodaran, “sbalorditivi”: tra l’85% e il 90% dei gestori attivi sottoperforma il proprio benchmark.

In altri termini, su 100 professionisti che cercano di battere il mercato, quasi 90 ottengono risultati peggiori di un algoritmo che si limita a seguire l’indice.

L’espansione dell’investimento passivo riflette questa presa di coscienza: molti investitori hanno compreso la scarsa qualità di una parte rilevante della gestione attiva e, grazie alla tecnologia, quanto sia diventato semplice investire replicando indici ampi e ben diversificati.

Per descrivere la gestione attiva, Damodaran utilizza una metafora particolarmente calzante: è come chiamare un idraulico per riparare una perdita e ritrovarsi con la casa allagata, oltre a una fattura salata da pagare!

Nel tempo, il value investing ha trovato nel factor investing sviluppato da Fama e French una solida legittimazione teorica.

L’idea che titoli “a buon mercato” offrano rendimenti superiori nel lungo periodo è stata infatti tradotta, in ambito accademico, nell’esistenza di specifici fattori di rischio come il value o il size. Se, però, questi fattori hanno smesso di generare premi sistematici, come sostiene Damodaran, anche la pretesa del value investing di battere il mercato risulta inevitabilmente ridimensionata.

È proprio a questo punto che si innesta la sua critica al factor investing come strumento operativo, ormai privo di gran parte della propria efficacia. Secondo Damodaran, i limiti di questo approccio emergono in maniera evidente se si considerano alcuni elementi chiave:

  • Rischio e rendimento in eccesso. Fama e French non hanno mai descritto i fattori come fonti di guadagni facili, ma come indicatori di rischi aggiuntivi non catturati dai modelli tradizionali. Rendimenti più elevati riflettono quindi un’esposizione a maggiore rischio, non una superiore capacità di selezione.
  • Contesto storico. Le evidenze empiriche alla base del factor investing sono in larga parte centrate sul mercato statunitense, il che ne limita l’applicabilità in un contesto globale.
  • Scomparsa dei premi. Il cosiddetto small cap premium – il vantaggio storico delle società di piccole dimensioni – non si osserva più dal 1981. Se in passato investire in aziende di dimensioni ridotte garantiva un extra-rendimento annuo compreso tra il 3% e il 4%, oggi questo beneficio risulta statisticamente nullo.
  • Crisi della mean reversion. L’idea che margini e performance tendano a tornare verso la media è stata indebolita dall’impatto della tecnologia e della globalizzazione. Alcune imprese riescono a mantenere vantaggi competitivi a lungo, mentre altre possono restare in difficoltà per periodi prolungati, in contrasto con le dinamiche del passato.

La conclusione di Damodaran è la seguente: in assenza di un apporto realmente originale, che non si riduca all’applicazione automatica di regole o modelli standardizzati, non è realistico aspettarsi rendimenti superiori alla media.

Il factor investing si riduce così a un semplice processo di screening, replicabile in pochi minuti e a costi minimi da un fondo a gestione passiva come un ETF.

3. Il cambio di mentalità: adattabilità e bounded storytelling. Il value investing come hobby

Pablo Picasso, Claude, two years old, and his hobby horse (1949)

«Dal punto di vista del «lavorare per vivere», ogni attività non connessa al lavoro diventa un hobby».

Hannah Arendt

Damodaran sottolinea la necessità di un cambio di paradigma per affrontare il XXI secolo, prendendo le distanze dalla rigidità del value investing tradizionale.

Per chiarire questa idea, Damodaran ricorre alla metafora dei generali francesi che, dopo aver tratto insegnamenti dalla Prima guerra mondiale, costruirono la Linea Maginot, salvo poi essere invasi comunque dall’esercito tedesco che la superò aggirandola a nord.

In modo analogo, gran parte della gestione attiva continua a combattere le battaglie del secolo scorso. Nel contesto attuale, il successo richiede invece adattabilità e la consapevolezza che esistono molteplici percorsi per ottenere buoni risultati.

Questa impostazione si riflette nel suo concetto di bounded storytelling, ossia una narrazione vincolata in cui la storia dell’azienda deve restare coerente con i dati fondamentali e con i limiti imposti dalla realtà economica.

Valutare un’impresa significa quindi costruire una narrazione plausibile sul suo futuro, che non deve trasformarsi in una favola ma restare ancorata alla realtà operativa ed essere supportata dai dati quantitativi.

Questo approccio si riflette anche nell’atteggiamento verso le grandi società tecnologiche, spesso evitate dal value investing tradizionale perché considerate “troppo costose”.

Damodaran, al contrario, afferma di aver investito in tutti i sette titoli delle cosiddette Mag 7, ritenendoli sottovalutati almeno due o tre volte nell’ultimo decennio. A suo avviso, “mai” è una parola particolarmente pericolosa nel mondo degli investimenti.

In questa logica si inserisce anche l’acquisto di Meta dopo il fallimento del progetto sul Metaverso, operazione che Damodaran ha paragonato all’investimento di Warren Buffett in American Express negli anni Sessanta, quando il titolo venne penalizzato da uno scandalo che fece molto scalpore ma con conseguenze economiche contenute.

Episodi come questo aiutano a chiarire l’approccio di Damodaran, ma non vanno interpretati come la prova di una strategia sistematicamente orientata alla sovraperformance.

L’ammissione forse più sorprendente di Damodaran è che pratica l’investimento attivo soprattutto per piacere personale e non perché si aspetti, in termini matematici, di battere il mercato.

Egli accetta senza riserve la possibilità di sottoperformare gli indici. La sua filosofia di investimento si fonda su principi che si discostano nettamente dal dogma tradizionale:

  • Diversificazione. A differenza del value investing classico, che privilegia portafogli concentrati composti da pochi titoli attentamente analizzati, Damodaran adotta un’elevata diversificazione, arrivando a detenere azioni di oltre 40 società. La ragione è una sola: l’imponderabile. Eventi come la pandemia di COVID-19 possono vanificare anche le valutazioni più accurate. Un portafoglio ampio riduce il rischio che un singolo fallimento comprometta l’intero investimento, mentre una forte concentrazione può rivelarsi fatale.
  • Accettazione dell’errore. Per Damodaran, le due parole più liberatorie nel mondo degli investimenti sono: “Ho sbagliato”. Riconoscere un proprio errore è una componente inevitabile del processo decisionale.
  • Fiducia contro dogma. Damodaran parla di fiducia nel processo, non di dogma. La fiducia implica la disponibilità a mettere in discussione le proprie convinzioni e a riconoscere al dubbio un ruolo legittimo nelle scelte di investimento.

In questa prospettiva, se a 85 anni gli venisse dimostrato che avrebbe potuto ottenere uno 0,5% annuo in più investendo esclusivamente in fondi a replica passiva, Damodaran si direbbe comunque soddisfatto: anche a costo di una lieve sottoperformance, avrebbe tratto valore dal piacere intellettuale e dall’esperienza personale della selezione dei titoli.

4. Punti di forza e limiti dell'approccio di Damodaran

Le posizioni e gli argomenti discussi da Damodaran presentano elementi di grande solidità, ma anche alcune aree di ambiguità che meritano di essere considerate con attenzione.

Tra i principali punti di forza del suo approccio possiamo elencare:

  • Onestà intellettuale. Riconoscendo in modo esplicito e senza girarci intorno che quasi il 90% degli investitori attivi non riesce a battere il mercato, Damodaran invita a una riflessione realistica sull’effettiva efficacia delle strategie attive. Questa affermazione acquista particolare rilievo perché proviene da una figura riconosciuta come uno dei massimi esperti di valutazione d’azienda e di investimento attivo.
  • Centralità dell’unicità. L’avvertimento secondo cui le attività basate su regole rigide sono destinate a essere replicate – e in molti casi sostituite – dall’intelligenza artificiale costituisce un forte incentivo a individuare un vantaggio competitivo autenticamente umano e difficilmente automatizzabile.
  • Adattabilità. La disponibilità a investire anche in società generalmente etichettate come growth, come Tesla o Meta, quando il prezzo lo giustifica, si contrappone alla miopia di un value investing dogmatico e ancorato a categorie rigide.

Accanto a questi punti di forza, possiamo rilevare anche alcune criticità nel suo impianto concettuale:

  • Eccessiva enfasi sul “meccanico”. L’idea di battere algoritmi e bot facendo leva su “intuizioni umane” rischia di restare troppo astratta e di difficile applicazione per l’investitore medio.
  • Ambiguità nella gestione del rischio. L’accettazione consapevole di una possibile sottoperformance, motivata dal piacere intellettuale dell’investimento, solleva interrogativi sulla reale efficienza nella preservazione del patrimonio.
  • Assenza di una formula operativa. Damodaran invita ciascun investitore a riflettere sulla propria filosofia e sui propri obiettivi, un percorso concettualmente valido ma poco agevole per chi è alla ricerca di indicazioni pratiche.

La lezione forse più rilevante per l’investitore medio è che investire dovrebbe servire a preservare e far crescere il patrimonio, non a inseguire arricchimenti rapidi.

Su questo punto Damodaran è netto: per medici, ingegneri o professionisti di altri settori, la vera fonte di ricchezza resta il proprio lavoro. Trascorrere la pausa pranzo a fare trading compulsivo difficilmente migliora il benessere finanziario e rischia, al contrario, di distrarre da ciò che genera valore nel lungo periodo.

Gli investimenti dovrebbero invece accompagnare la vita quotidiana, fungendo da strumento per valorizzare quanto accumulato attraverso l’attività professionale.

In questo senso, il pensiero di Damodaran rappresenta un invito a trasformare il value investing da un insieme di regole rigide a un esercizio di adattabilità e onestà intellettuale.

Visto da questa prospettiva, il value investing somiglia a una vecchia automobile: forse non è la più veloce sulla strada, ma resta piacevole da curare e guidare nel tempo libero, con la consapevolezza che, per arrivare puntuali al lavoro, il treno – ossia la semplice replica di un indice ampiamente diversificato – sarà quasi sempre una scelta più efficiente.

A questo punto, vorrei aggiungere una riflessione più personale, pur avendo già affrontato il tema del value investing e dell’analisi fondamentale in un articolo precedente.

Se anche Damodaran – che per competenze, esperienza e strumenti a disposizione gioca una partita diversa da quella della stragrande maggioranza degli investitori – ammette di investire attivamente più come esercizio intellettuale che come strategia per battere il mercato, allora è difficile continuare a coltivare illusioni di superiorità.

Non per questo l’investimento attivo va demonizzato, ma andrebbe ricondotto a ciò che realisticamente è: un interesse o un hobby, talvolta stimolante, ma che non potrà mai diventare una fonte sistematica di extra-rendimenti.

Credo che servano meno arroganza e certezze assolute, e più umiltà intellettuale. Accettare i propri limiti, riconoscere la forza del mercato e ridimensionare le ambizioni è una forma di maturità finanziaria.

Ed è probabilmente da qui che ogni investitore, anche il più esperto, dovrebbe partire.

Il Percorso avanzato continua con l'articolo McQuarrie contro Siegel: stocks for the long run?

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